POLITICA

Giorgia come Silvio: la svolta contro giudici e giornalisti

Giorgia come Silvio: la svolta contro giudici e giornalisti

C’è una Giorgia1 e una Giorgia2. La prima è la Giorgia Meloni “di lotta” che aumenta il consenso per sé e il suo partito (dall’1,9 per cento del 2013 al 28,8 per cento del 2024) stando “fuori dal Palazzo”, paladina contro l’establishment, unica sempre all’opposizione, anche del governissimo Draghi. La seconda è la Giorgia Meloni “di governo”, che si è rapidamente “fatta establishment”. Nella politica economica. Nella fedeltà atlantica. Ma soprattutto nella politica della giustizia, dove arriva a realizzare il programma che Silvio Berlusconi aveva tentato di realizzare senza riuscirci. 

Viene da una tradizione assai diversa da quella di Berlusconi: la destra “legge e ordine”, quella che sostenne Mani pulite e che nel 1994 chiese a Piercamillo Davigo di diventare ministro della Giustizia. Quella che ha nel suo Pantheon un magistrato antimafia come Paolo Borsellino. Ma una volta arrivata al governo, ha scelto Carlo Nordio come ministro della Giustizia, che ha avviato una riforma (o controriforma) della giustizia invisa anche alla parte più conservatrice della magistratura.

Bisogna subito rettificare un’illusione ottica: la Giorgia Meloni che si presenta come “underdog” e nel 2022 arriva alla guida del governo è la stessa che faceva parte dei governo Berlusconi già nel 2008, la stessa che ha sostenuto le sue riforme contro la Giustizia e le sue leggi ad personam. Ed è la stessa che ha guidato negli anni un partito che si è andato riempendo di indagati, imputati, condannati, furboni della politica e personaggi in conflitto d’interessi.

Ma oggi la contraddizione tra iniziali proclami politici e attuali realizzazioni legislative è palese e stridente. Non è più la sfasatura tra “predicare bene e razzolare male”: è cambiato anche il “predicare”. Le reazioni contro i magistrati “colpevoli” di scelte sgradite risuonano simili a quelle berlusconiane. La difesa di “legge e ordine” e dell’indipendenza della magistratura dalle intromissioni del potere politico lascia il posto a una pianificata riduzione degli strumenti a disposizione della magistratura inquirente e della sua autonomia; a una intromissione dell’esecutivo nelle scelte della magistratura giudicante; a una maggiore severità nei confronti dei reati “di strada” simmetrica a una maggiore tolleranza per i reati dei politici e dei colletti bianchi, con esito finale di approdare a una giustizia a due velocità (un tempo si sarebbe detto: di classe).

Ci sono anche iniziative governative che hanno per effetto l’intervento su inchieste in corso. La competenza sui trattenimenti dei migranti viene spostata dai tribunali specializzati alle Corti d’appello, nella speranza di ribaltare i giudizi che hanno svuotato la struttura detentiva in Albania. La norma “d’interpretazione autentica” sull’urbanistica (in realtà voluta da una parte del Pd su spinta del sindaco di Milano Giuseppe Sala, ma presentata alla Camera con la prima firma di un importante esponente di Fratelli d’Italia) punta ad azzerare le inchieste in corso a Milano su grattacieli e palazzi costruiti fuori dal perimetro delle leggi vigenti, senza piano attuativo che calcoli i servizi per i cittadini.

È la politica che interviene sulla giurisdizione. La realizzazione di quanto tentato – per lo più invano – da Berlusconi. In un clima ancor più pericoloso, perché le leggi pensate ad Arcore erano facilmente smascherabili come costruite ad personam o ad aziendam per bloccare i procedimenti giudiziari di Berlusconi o favorire i suoi affari. Oggi le controriforme sulla giustizia si presentano invece come universali, anche se il loro effetto sarà quello di ridurre il controllo di legalità sul potere politico che la Costituzione affida al potere giudiziario. 

Universali, ma comunque “aiutate” e “spinte” da casi giudiziari concreti che hanno coinvolto esponenti di Fratelli d’Italia. Tanti piccoli procedimenti che hanno riguardato politici e amministratori del partito in tutto il Paese. E alcune grosse inchieste che hanno lambito personaggi di vertice. L’inchiesta che ha coinvolto la ministra Daniela Santanché per i pasticci finanziari e la cattiva gestione delle sue aziende finite sull’orlo della bancarotta; l’indagine sul sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro per aver rivelato notizie segrete sul caso Cospito al compagno di partito Giovanni Donzelli; perfino le accuse di stupro al figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa. Giorgia Meloni, i fratelli e le sorelle d’Italia, e ancor più i loro alleati di governo, hanno fatto quadrato attorno ai loro compagni di partito, spesso con reazioni perfettamente berlusconiane: hanno denunciato un “attacco della magistratura nei confronti della politica”, sostenendo che sia necessario rispondere con una “riforma della giustizia”. In realtà, una controriforma che realizzi un ridimensionamento del controllo di legalità sulla politica.

Torna, a volte con parole nuove, a volte con le stesse di Berlusconi, la denuncia di un “attacco” dei magistrati contro la politica di governo, di una “ripresa della guerra tra politica e magistratura”: in verità si è trattato di ripetuti attacchi della politica (l’aggressore) alla magistratura (l’aggredito) quando questa, seguendo i codici e la Costituzione, avvia indagini su politici e amministratori. Non è guerra, è bullismo della politica.

Tra gli alleati di centrodestra i toni più duri sono quelli di Matteo Salvini e della Lega. Meloni ha mostrato qualche riserva nel difendere ad ogni costo Santanché e ha addirittura bacchettato La Russa per alcune sue iniziali dichiarazioni sul figlio. Ma, alla fine, la presidente del Consiglio lascia fare Nordio e invoca le “riforme” che, da una parte, rendano più difficoltoso indagare e, dall’altra, più difficile informare sulle indagini che riguardano indagati eccellenti.

Il primo passo significativo è stato l’abolizione dell’articolo 323 del codice penale che disciplina l’abuso d’ufficio. Un reato già circoscritto da precedenti riscritture, una “riforma” che contraddice le raccomandazioni dell’Unione europea. E che ha dovuto essere a sua volta “riformata” da una norma che punisca almeno la “indebita destinazione di denaro o di cose mobili”, ossia il “peculato per distrazione” (cioè il reato commesso dai pubblici ufficiali che regalano risorse pubbliche agli amici).

Ridotta la punibilità anche del traffico d’influenze illecite: per essere perseguibile, si dovrà dimostrare che il mediatore ha sfruttato “intenzionalmente” le relazioni con il pubblico ufficiale, che dovranno essere “esistenti” e non più solo “asserite”. Inoltre, l’eventuale utilità data o promessa, per configurare reato dovrà essere “economica”: non basteranno più i favori diversi da quelli che hanno valore monetizzabile.

Per il resto, la riforma Nordio rende più complicate le procedure che i magistrati devono seguire per chiedere misure cautelari in carcere. A deciderle non sarà più un solo gip (giudice per le indagini preliminari), ma ben tre: questi saranno poi tutti incompatibili nelle fasi successive del procedimento, così gli uffici giudiziari più piccoli correranno il rischio di rimanere bloccati. Prima di arrestare un indagato, sarà necessario procedere al suo interrogatorio, avvisandolo dell’arresto “almeno cinque giorni prima” (tranne nei casi di pericolo di fuga o inquinamento delle prove, o quando c’è il rischio di reiterazione dei reati, ma solo i più gravi, mafia, terrorismo, violenze sessuali, stalking, o quelli commessi con l’uso delle armi).

A essere più “garantiti”, dunque, saranno di fatto i colletti bianchi. I cittadini, comunque, saranno meno informati: vietata la pubblicazione testuale delle ordinanze di custodia cautelare e delle intercettazioni in esse citate; vietato indicare “i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione”, cioè non si potranno citare persone non indagate, anche se potrebbero essere utili per comprendere il contesto dei fatti; vietata la pubblicazione dell’avviso di garanzia, che dovrà contenere una “descrizione sommaria del fatto”.

Non sarà più possibile per il pubblico ministero appellare le sentenze di proscioglimento per quanto riguarda i reati per cui è prevista la citazione diretta a giudizio (cioè quelli che saltano l’udienza preliminare e sono punibili con un massimo di quattro anni). È un ritorno, pur in misura ridotta, della legge Pecorella voluta da Berlusconi, che toglieva all’accusa la possibilità di ricorrere in appello dopo una sentenza d’assoluzione in primo grado e che fu dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale.

La norma-bandiera di questa tornata di riforme della giustizia è la separazione delle carriere. Separati per sempre i magistrati d’accusa da quelli giudicanti, con due diversi Csm a garantirne (si spera) l’indipendenza e l’autogoverno. Norma inutile: sono ormai pochissimi i passaggi di carriera tra pm e giudici. Norma dannosa: una comune cultura della giurisdizione assicura più garanzie all’indagato da parte di un pm che abbia nella sua formazione la propensione a cercare anche le prove favorevoli all’indagato, mentre una casta separata di accusatori potrebbe diventare più determinata a ottenere a ogni costo il risultato (la condanna) e meno attenta alle garanzie degli indagati. Norma alla fine letale: il suo esito potrebbe essere la sottoposizione del pm al potere esecutivo, con perdita dell’autonomia e dell’indipendenza garantite dalla Costituzione italiana a tutti i magistrati, inquirenti e giudicanti.

Quello che Berlusconi non è riuscito a fare in un ventennio di presenza sulla scena politica, è ora in via di realizzazione da parte del governo di Giorgia Meloni. È una semplice constatazione fattuale: ciò che a Berlusconi fu impedito, anche perché era evidente l’interesse personale di un politico che confezionava leggi ad personam per risolvere propri problemi giudiziari, oggi è permesso a una compagine di governo che punta a realizzare per la giurisdizione una trasformazione di sistema, anche intervenendo su delicati equilibri costituzionali.

Un intervento riassumibile in cinque linee d’attacco: riduzione degli strumenti d’indagine a disposizione dei magistrati, zavorrati da procedure più macchinose; riduzione tendenziale della loro autonomia e indipendenza; abbassamento del controllo di legalità nei confronti di politici e colletti bianchi; riduzione della possibilità dell’informazione a esercitare un efficace controllo su indagini e processi che coinvolgano politici e amministratori; tendenza a costruire una giustizia a due velocità, morbida e ultragarantista per politici e colletti bianchi, dura e inflessibile per chi è accusato di reati “di strada”, con aumento delle pene e introduzione di nuove fattispecie.

Poiché il controllo di legalità esercitato dal potere giudiziario e quello di trasparenza garantito dall’informazione sono due componenti costitutive e irrinunciabili della democrazia, è possibile affermare che è in corso qualcosa di più che una semplice “riforma” della giurisdizione: è in atto un attacco ai livelli della nostra democrazia.

MicroMega 2/2025, marzo 2025
To Top