La Cedu, Maria e il signor K. Ecco perché un Comune non può far causa a un cittadino
Una delibera di giunta del 6 giugno 2024, proposta dal sindaco di Milano e approvata da tutti gli assessori presenti, ha dato mandato all’avvocatura comunale di trascinare il giornalista Gianni Barbacetto davanti al Tribunale civile di Milano, chiedendogli 50 mila euro di danni per aver diffamato l’amministrazione milanese. Una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo argomenta che questo non è compatibile con la libertà d’espressione.
di Marco Franchi /
Sembra scritta per il sindaco Giuseppe Sala la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 16 maggio 2024 su un caso che ricorda quello che coinvolge il collega del Fatto Gianni Barbacetto, chiamato davanti all’Organismo di Mediazione (senza aver ancora ricevuto l’atto di citazione) da una delibera di giunta del Comune di Milano.
Oggetto della vertenza, alcuni suoi interventi sui social in cui si chiedeva se i comportamenti dei dipendenti comunali, indagati dalla Procura di Milano nelle inchieste su irregolarità urbanistiche, fossero estranei a qualche retroscena corruttivo (“Domanda: ma davvero a Milano il Comune lascia costruire grattacieli fuori dalle norme, senza che parta qualche mazzetta, come ai bei tempi di Tangentopoli?”).
Ecco la storia di Maria Somogyi, perdente nei tribunali ungheresi e trionfante alla Corte di Strasburgo. Il 10 dicembre 2014 il signor K. (ogni riferimento a Kafka è puramente casuale) pubblica sulla sua pagina Facebook un post in cui invita i suoi concittadini di Tata a una manifestazione per protestare contro il Comune che ha venduto un edificio storico a un uomo d’affari locale, L., che ha poi affittato lo stesso edificio agli enti che glielo avevano venduto a un “prezzo follemente alto”.
K. lo descrive come un “furto ai cittadini di Tata” che potrebbe “riempire le tasche” di L. (tra oneri d’urbanizzazione e monetizzazioni degli standard, si potrebbe ipotizzare che il Comune di Milano abbia rinunciato, a favore dei costruttori, a entrate per 1,5 miliardi). K. conclude chiedendo: “La vendita della proprietà è legale? C’è stato un bando? L’acquirente ha pagato il prezzo giusto? C’era bisogno di vendere l’immobile della città?”.
Maria Somogyi condivide su Facebook il post di K. aggiungendo una domanda sull’importo pagato dal Comune di Tata per i nuovi locali dell’ufficio anagrafe. Il Comune di Tata avvia un’azione civile contro Somogyi, chiedendole circa 1.400 euro, assai distanti dai 50 mila che potrebbero esser chiesti dal Comune di Milano a Barbacetto, come risarcimento per la violazione della reputazione.
Maria perde la causa civile nei tre gradi di giudizio ma ricorre alla Corte di Strasburgo chiamando in causa l’Ungheria, che viene condannata a restituirle quanto sborsato, le spese di giudizio e a risarcirle il danno morale.
Con quale motivazione? La Corte cita le leggi d’Inghilterra e Galles in base alle quali “le autorità locali, le società di proprietà del governo e i partiti politici [non possono] citare in giudizio per diffamazione, perché c’è un interesse pubblico affinché un’organizzazione democraticamente eletta, o un organismo controllato da tale organizzazione, sia esposto a critiche pubbliche disinibite”.
La Corte ritiene che “proteggere gli organi del ramo esecutivo del potere statale […] potrebbe seriamente ostacolare la libertà dei media”. Le istituzioni pubbliche hanno il diritto a tutelare la propria reputazione, ma “il fatto che gli organi esecutivi siano autorizzati a intentare procedimenti per diffamazione nei confronti dei membri dei media comporta un onere eccessivo e sproporzionato per i media e potrebbe avere un inevitabile effetto dissuasivo sui media nell’esercizio del loro ruolo di fornitori di informazioni e di controllo pubblico”.
Secondo la Corte “i procedimenti civili per diffamazione promossi da una persona giuridica che esercita pubblici poteri non possono, in linea di principio, essere considerati conformi all’obiettivo legittimo della ‘tutela della reputazione’”. Potrebbero tutt’al più ricorrere “singoli membri di un ente pubblico”.
La Corte compara la forza di un organo dotato di pubblici poteri a quelli di un cittadino che esercita il diritto alla libertà di espressione. Muove critiche a un organo che ha gli strumenti per contestare le critiche senza avviare un’azione giudiziaria che lede un diritto fondamentale, la libertà di espressione, tutelata dall’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo che garantisce la “libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte di autorità pubbliche”.
Così, “la Corte constata che il procedimento civile per diffamazione del Comune di Tata non perseguiva nessuno degli obiettivi legittimi elencati al paragrafo 2 dell’articolo 10” che limitano il diritto d’espressione. E condanna l’Ungheria a pagare a Maria i danni e le spese. I principi sanciti dalla Corte di Strasburgo, in base alla Convenzione dei diritti dell’uomo, vincolano i giudici nazionali, perché i singoli Stati potrebbero essere condannati se li ignorassero.
Il sindaco Sala è sicuro di voler procedere contro Barbacetto, sapendo che il Comune di Milano, come quello di Tata, potrebbe non aver titolo per agire?
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