L’eterno ritorno
» Salvatore Ligresti
È appena entrato nella cordata della nuova Alitalia. Si prepara al grande banchetto dell’Expo. Presidia i salotti del Corriere e di Mediobanca. Vita, miracoli, cadute e risurrezioni di don Totò, costruttore, finanziere, assicuratore. E fedele amico dei politici, da Craxi a Berlusconi
Il ritorno definitivo ha una data: 12 ottobre 2004, quando la figlia di Salvatore Ligresti, Jonella, entra nel consiglio d’amministrazione del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. È il punto d’arrivo simbolico di una storia lunga e travagliata. Entrare nel più importante salotto della finanza italiana, da cui era stato respinto solo due anni prima, significa buttare alle spalle e dimenticare per sempre le ombre, i dubbi, le chiacchiere, le accuse, le polemiche, i processi, le condanne. Don Salvatore, ormai accettato nel club più esclusivo d’Italia, ha riscattato la sua storia. Del resto, chi la ricorda più, la sua storia?
Salvatore Ligresti arriva a Milano sul finire degli anni Cinquanta. Non ha alcun capitale, solo una laurea in ingegneria conquistata all’Università di Padova e una furbizia innata, un gran fiuto per gli affari. È siciliano, nato il 13 marzo 1932 a Paternò, in provincia di
Catania. Ma è a Milano che consolida i rapporti che gli schiuderanno le porte del successo. Il suo primo maestro è Michelangelo Virgillito, suo compaesano, grande manovratore di Borsa nella Milano del «miracolo economico». Il secondo è Raffaele Ursini, l’uomo che eredita da Virgillito il gruppo Liquigas e lo porta rapidamente al fallimento. Da loro Ligresti impara a muoversi nel mondo degli affari immobiliari e della finanza. Da Michele Sindona rileva la Richard-Ginori, ormai povera di produzione ma ricca di aree industriali da dismettere e valorizzare.
Da Ursini eredita il primo pacchetto d’azioni Sai. Anzi, più che un’eredità sembra uno scippo: questi, dopo il crac, scappa in Brasile, lasciando il prezioso malloppo nelle mani del figlioccio. Non riuscirà più a ritornarne in possesso. Per Ursini, si trattava di una«vendita simulata»: il 20 per cento regalato, il 10 ceduto con la formula del «patto di riscatto». Ma Ligresti la racconta in modo diverso: le azioni sono state da lui regolarmente acquistate e pagate. Una sentenza, dopo un contenzioso iniziato nel 1988 e durato anni, gli darà ragione. L’avventurosa conquista della Sai avviene comunque con la partecipazione di una piccola folla di strani personaggi. C’è il senatore missino Antonino La Russa, padrino di Virgillito e Ursini: dopo che i due escono di scena prende lui sotto tutela il giovane Totò Ligresti. C’è Luigi Aldrighetta, operatore finanziario palermitano che fa da mediatore per l’acquisto da parte di don Salvatore di un ulteriore, grosso pacco di azioni Sai. Ci sono i sei fratelli Massimino, costruttori catanesi partiti da zero (erano muratori) e diventati potenti: erano intestate a loro due misteriose finanziarie, la Finetna e la Premafin, che controllavano la Sai nel periodo d’interregno tra la fuga di Ursini e l’arrivo palese di Ligresti ai vertici della compagnia.
Attorno al finanziere siciliano, comunque, a Milano crescono subito leggende nere, che adombrano rapporti sotterranei con la mafia. La domanda che circola nei salotti buoni è: ma dove ha preso, questo signore, tutti quei soldi? Come ha potuto diventare il padrone della Sai un uomo che nel 1978 dichiarava al fisco un reddito di 30 milioni di lire? Come ha fatto a diventare, in pochi anni, uno dei cinque uomini più ricchi d’Italia, uno dei pochi italiani presenti nelle classifiche di Forbes e Fortune?
Prima sono soltanto calunniosi venticelli, poi le maldicenze s’ingrossano e diventano insistenti, anche perché la famiglia Ligresti resta vittima di un episodio drammatico e oscuro. Don Salvatore a Milano ha fatto un buon matrimonio, perché ha sposato la figlia di un personaggio chiave per gli affari edilizi, Alfio Susini, provveditore alle opere pubbliche della Lombardia. Antonietta Susini, detta Bambi, diventa la moglie del palazzinaro rampante, ma nel 1981 è vittima di un sequestro. La soluzione è rapida: Bambi, rapita a Milano il 5 febbraio, viene liberata nei pressi di Varese dopo poco più di un mese, dietro il pagamento di un riscatto, pare, di 600 milioni di lire.
Ma c’è un risvolto inatteso: degli uomini individuati come i presunti rapitori, tutti esponenti delle famiglie «perdenti» della mafia palermitana, due, Pietro Marchese e Antonio Spica, finiscono morti ammazzati; il terzo, Giovannello Greco, fedelissimo del vecchio capo di Cosa nostra Stefano Bontate, scompare nel nulla. È chiamato «il re degli Scappati» (i mafiosi palermitani che per anni si nascondono, sperando nella rivincita). Viene segnalato tra Ibiza e Maiorca, arrestato in Spagna nel 1997 e poi ancora nel 1999, ma ogni volta svanisce nel nulla. Fino al maggio 2002, quando si costituisce e viene estradato in Italia.
Sulla presunta mafiosità di Ligresti vengono compiute anche indagini ufficiali, molto discrete, senza che nulla trapeli. Nel 1984 il procuratore della Repubblica di Roma, Marco Boschi, invia a polizia, carabinieri e guardia di finanza una richiesta che dice: «Ai fini di un’eventuale proposta per l’applicazione di misure di prevenzione, prego fornire le informazioni del caso in ordine a Finocchiaro Franco, residente a Catania, e a Ligresti Salvatore, residente a Milano». Dunque Ligresti (insieme a Finocchiaro, che con Carmelo Costanzo, Mario Rendo e Gaetano Graci è uno dei quattro «cavalieri dell’Apocalisse» catanesi) è stato oggetto di un’indagine di polizia, di quelle che si facevano nei confronti dei sospetti mafiosi per valutare l’eventuale decisione di misure di prevenzione quali il confino. Nel 1985 il suo fascicolo, che a Roma era stato assegnato al sostituto procuratore Franco Ionta, viene inviato a Milano, dove se ne occupa Piercamillo Davigo, in un secondo momento affiancato da un altro magistrato della procura, Filippo Grisolia, che già indagava su Ligresti per una storia di licenze urbanistiche.
Dopo alcuni anni di accertamenti, il dossier mafia su don Salvatore è stato chiuso, senza alcuna conseguenza. In sospeso restano però alcune domande: perché la procura di Roma aprì l’inchiesta? Sulla base di quali elementi e segnalazioni? E perché Ligresti era affiancato a Finocchiaro, cavaliere del lavoro catanese?
Il nome di Ligresti compare anche in un’altra indagine giudiziaria, svolta da Ernesto Cudillo, in rapporto alla compravendita di un palazzo all’università romana di Tor Vergata, che ha come protagonista Manlio Cavalli, secondo i carabinieri legato alla banda della Magliana e al boss di Cosa nostra nella capitale, Pippo Calò. Indagine senza risultati, dunque archiviata.
Don Salvatore torna a essere avvicinato a vicende di mafia negli anni novanta, a Palermo. Questa volta a parlarne è una voce dall’interno di Cosa nostra, uno degli ultimi grandi collaboratori di giustizia: Angelo Siino, l’imprenditore considerato il «ministro dei lavori pubblici» della mafia siciliana. Siino, che conosce bene gli affari e i loro protagonisti, racconta che Ligresti aveva come diretto referente mafioso nientemeno che Nitto Santapaola, il boss di Cosa nostra a Catania. Tanto potenti erano i suoi protettori che nel 1991, secondo Siino, per favorirlo furono addirittura sconvolti gli equilibri consolidati nell’assegnazione degli appalti, quelli che esigevano che fosse la Gambogi, gruppo Ferruzzi, a costruire in Sicilia; sempre secondo il collaboratore di giustizia, intervenne il potentissimo commercialista palermitano Piero Di Miceli, con la mediazione di Raffaele Ganci, a sollecitare che la Gambogi si facesse da parte per lasciare alla Grassetto di Ligresti un ricco appalto palermitano. In mancanza di altri riscontri, anche queste dichiarazioni sono però rimaste lettera morta.
Come le testimonianze di un altro collaboratore di giustizia, Gaspare Mutolo, che nel 1996 riferisce una confidenza ricevuta da Vittorio Mangano, lo «stalliere» di Arcore: Ligresti, secondo questa dichiarazione, riciclava i soldi della famiglia Carollo (quella della Duomo connection), insediata nell’hinterland milanese.
Delle vecchie storie rimaste senza riscontro, chiacchiere vuote, don Salvatore non vuole sapere niente. Tace. Costruisce in silenzio il suo impero del mattone, senza curarsi delle cattiverie che circolano su di lui, senza mai una prova decisiva. Negli anni ottantaè già l’immobiliarista più potente di Milano. Ma è anche un finanziere importante: ha in cassaforte non solo il pacchetto di azioni che gli permette di controllare la Sai, ma anche una serie di piccole quote di società importanti, dalla Pirelli (5,4 per cento) alla Cir di Carlo De Benedetti (5,2), dalla Italmobiliare di Giampiero Pesenti (5,8) all’Agricola Finanziaria di Raul Gardini (3,7). Tanto che qualcuno comincia a chiamarlo Mister 5 per cento. Resta, per la finanza italiana, un oggetto misterioso, dalle origini sconosciute e con un impero dai confini incerti. Ma ricco e pronto a investire i suoi soldi.
Accetta per la prima volta di concedere un’intervista nel febbraio1986. A raccogliere le sue spiegazioni è Anna Di Martino, del settimanale Il Mondo. A lei, il suo primo miliardo lo racconta così: «È una storia bellissima. Avevo saputo della possibilità di acquistare il diritto per costruire un sopralzo, in via Savona, in zona Genova. Ma ci volevano 15 milioni e io ne avevo solo 5. Ma non mi sono perso d’animo. Sono andato al Credito commerciale per chiedere un prestito e mi ha ricevuto il direttore generale, Mascherpa». «Senza farle fare anticamera e senza raccomandazioni…» annota incredula l’intervistatrice. E Ligresti: «Mascherpa era un grande banchiere, un uomo di grosso intuito: io parlavo e lui ascoltava e a un certo momento mi ha detto: “Le do 10 milioni”. Quasi non ci credevo… Con quei 10 milioni ho fatto il progetto, ho rivenduto il diritto per 50 milioni, guadagnando in un colpo solo 35 milioni. Era il 1962». E 35 milioni di allora erano più o meno un miliardo di lire.
Ma i veri metodi di lavoro di don Salvatore saranno scoperti qualche mese più tardi, quando esplode il primo scandalo che lo coinvolge. Ottobre 1986: il nuovo assessore all’Urbanistica di Milano, Carlo Radice Fossati, trova nei suoi uffici tre documenti con cui tre società (controllate da Ligresti) promettevano di vendere al Comune, a prezzi stracciati, le loro aree che invece stavano per essere comprate a prezzi di mercato. È la scintilla che fa scoppiare lo «scandalo delle aree d’oro», un grande caso politico-urbanistico che mette in evidenza, sei anni prima di Mani pulite, la trama di commistioni tra politica e affari, gli accordi sotterranei, le stecche, le corsie preferenziali. Salvatore Ligresti, amico di Bettino Craxi e in ottimi rapporti con il sindaco socialista Carlo Tognoli e l’assessore comunista Maurizio Mottini, diventa il simbolo dell’imprenditore che riesce a concludere ottimi affari grazie alla politica.
Il suo più implacabile accusatore è Basilio Rizzo, allora consigliere comunale di Democrazia proletaria, che con enorme pazienza e passione controlla ogni dettaglio della macchina comunale milanese. Ma anche il missino Riccardo De Corato sforna denunce pubbliche contro il costruttore. Ligresti viene indagato per corruzione e un pretore coraggioso, Francesco Dettori, scopre una miriade di reati urbanistici compiuti nei suoi cantieri, disseminati in tutta Milano: «Parlare di semplice sospetto di collusione tra uffici comunali competenti e proprietà è mero eufemismo. Reputa questo pretore fuori discussione una simile connivenza, alla luce degli evidenziati dati documentali». E giù ventiquattro pagine di esempi.
Ma la scoperta più clamorosa agli occhi dei milanesi, in realtà, è che l’amministrazione di sinistra ha dato la città in mano allo sconosciuto palazzinaro venuto da Paternò: due terzi delle edificazioni avviate dalla giunta, a colpi di miracolose varianti al piano regolatore, sono targate Ligresti. Segue dibattito, con polemiche infuocate.
Cade la giunta, Tognoli è costretto a dimettersi e Ligresti esce distrutto dallo scandalo delle aree d’oro: con l’immagine a pezzi e uno stillicidio di piccole condanne per abusi edilizi. Eppure a rendere drammatica la sua prima caduta non saranno le condanne né il crollo d’immagine, ma il mercato: i suoi palazzi non si vendono, gli uffici restano vuoti, il terziario è bloccato. Un fallimento anche per la politica e per la gestione del sindaco Tognoli, che sull’espansione del terziario aveva puntato tutto, anche barando: quello che era stato chiamato Piano Casa, varato in nome della necessità di costruire abitazioni a prezzi contenuti, si era via via trasformato in un diluvio di uffici, il più grande mai permesso fino a quel momento a Milano.
Ma gli affari sono più severi della politica, non perdonano gli errori: palazzi invenduti vogliono dire crisi. L’indebitamento finanziario netto di Ligresti, infatti, è da vertigine: più di 1150 miliardi di lire, una dozzina di volte il patrimonio netto. Per di più il vecchio maestro, Ursini, si rifà vivo e trascina Ligresti in tribunale, perché pretende che gli sia restituita la sua Sai. Uno senza santi in paradiso, in queste condizioni, sarebbe miseramente fallito nel corso di una notte. Ligresti invece si salva.
Nerio Nesi, allora presidente della Bnl, ha raccontato di aver ricevuto nel 1987 da Bettino Craxi l’ordine di concedere un grosso finanziamento a Ligresti. Dopo aver incassato il rifiuto di Nesi, Craxi s’infuria: «Devi ancora imparare come si fa il banchiere!». Ma poi è nientemeno che Enrico Cuccia a correre in aiuto di don Salvatore, inventando una manovra di salvataggio da brivido. Il presidente di Mediobanca nel 1989 decide di imporre la quotazione in Borsa della Premafin, chiedendo al mercato, come al solito in Italia, di sborsare i soldi necessari. Cuccia impone per la Premafin una valutazione di oltre 1000 miliardi, 14 volte gli utili (eccezionali: 72 miliardi) di un anno che non si ripeterà mai più.
Il miracolo degli utili viene realizzato soltanto grazie alle corsie preferenziali della politica: Ligresti vende molti dei suoi palazzoni vuoti agli enti pubblici, forzando il mercato. Era Tangentopoli all’opera, anche se la parola non era ancora stata inventata. Perché Cuccia ha fatto questo per don Salvatore? La risposta più convincente è questa. Lasciar fallire Ligresti significava lasciar andare chissà dove la Sai, e con essa un suo piccolo pacchetto azionario, a cui Cuccia teneva più d’ogni altra cosa: quello di Euralux, finanziaria lussemburghese che controlla un fascio determinante di azioni Generali. Per tenerlo nell’orbita di Mediobanca, Cuccia era disposto a fare patti anche con il diavolo. Così Ligresti è salvato e risorge la prima volta.
Don Salvatore, del resto, è uomo di parola, uno che mantiene le promesse: Cuccia sapeva di aver trovato in lui un alleato fedele, uno strumento utile per manovrare nel mare della finanza italiana. E anche un ponte per la politica: è stato Ligresti ad accompagnare Craxi negli uffici di Mediobanca, stabilendo il primo contatto tra il leader socialista ed Enrico Cuccia. Contatto prezioso, per avviare, nel 1984, le operazioni di privatizzazione di Mediobanca sotto la regia dello stesso Cuccia.
Benvenuti al Parco Ligresti
La via crucis di don Salvatore costruttore e martire continua. Caduto la prima volta sul Golgota delle aree d’oro e del terziario invenduto, rialzato da un Cuccia buon centurione, cade la seconda volta sulla via di Mani pulite. Nel 1992, infatti, il vento cambia, salta l’omertà degli anni delle aree d’oro. Iniziano le confessioni a catena, i protagonisti delle tangenti, questa volta, parlano. Così il 16 luglio, cinque mesi dopo l’arresto di Mario Chiesa il «mariuolo», Ligresti viene portato in una cella di San Vittore, che è costretto a dividere con un tossicodipendente. «Se arrestano perfino Ligresti, vuol dire che fanno sul serio» si commenta a Milano. È accusato di corruzione per aver comprato a suon di tangenti, per la sua società di costruzioni Grassetto, gli appalti della metropolitana milanese e anche qualche terreno pubblico.
Nel 1993, nuova imputazione: è accusato di aver fatto ottenere alla Sai, con ingenti mazzette, un superaccordo che sposa Eni e Sai, a cui è affidata la gestione di tutti i contratti assicurativi dell’ente petrolifero. Poi le accuse si moltiplicano, in una Mani pulite che contagia una buona parte d’Italia. Ligresti è considerato un personaggio di primo piano nel sistema di Tangentopoli, tanto che quando i magistrati di Milano s’imbattono in una megatangente da 21 miliardi pagata a Craxi da una misteriosa società estera chiamata All Iberian pensano che dietro ci sia Ligresti. Scopriranno che invece c’era un suo concorrente, un palazzinaro con villa ad Arcore passato al business della tv commerciale.
«“Facci il nome, facci quel nome”, mi ripetevano, e mi facevano una x con le dita. Ma io quel nome non l’ho fatto» racconta in seguito agli amici don Salvatore, ricordando i lunghi mesi di galera. Il nome con la x, naturalmente, è Craxi. Ma qualcosa, alla fine, ammette anche il duro di Paternò. Il minimo indispensabile. Poi arrivano i processi e le condanne. La prima, per Eni-Sai, chiesta dal pubblico ministero Fabio De Pasquale, è di tre anni e sei mesi, che sarà limata (due anni e quattro mesi) ma confermata anche in Cassazione. Niente galera, nel sistema italiano, solo affidamento ai servizi sociali, cioè una chiacchierata ogni tanto con un’assistente sociale e un piccolo impegno per la Caritas ambrosiana.
La pena ha però un risvolto assai spiacevole: il codice prevede che una condanna definitiva faccia venire meno i requisiti di «onorabilità» necessari per guidare le compagnie d’assicurazione; per questo il pregiudicato Ligresti ha dovuto lasciare tutte le cariche sociali. A sostituirlo, almeno per la legge, sono i figli: Jonella diventa presidente della Sai, vicepresidente di Premafin e unica donna a sedere nel consiglio d’amministrazione di Mediobanca; Giulia siede nei consigli di Sai, Premafin e Telecom, ma è più interessata alle sue borse e accessori in pelle, che disegna di persona e commercializza con il marchio Gilli; Paolo, il figlio minore, è presidente di Sai International e vicepresidente di Atahotel, la società che controlla gli alberghi del gruppo.
Nel 2002, sempre con la regia di Mediobanca, Ligresti mette a segno un colpo da maestro. La vicenda era cominciata l’anno precedente, quando la Fiat aveva lanciato un’Opa (un’offerta pubblica d’acquisto) sulla Montedison, con l’obiettivo di entrare nel settore dell’energia: un business redditizio e anticiclico, prezioso in tempi difficili per un’azienda allora in crisi nera. Subito si era messa in moto Mediobanca, che di Fiat era diventata la grande nemica: voleva impedire a ogni costo che, con quell’operazione, la casa torinese s’impossessasse di Fondiaria, la compagnia d’assicurazioni fiorentina controllata da Montedison. Vincenzo Maranghi, il successore di Cuccia, chiede l’intervento di Ligresti, uno che, con tutto quello che ha ricevuto da Mediobanca, non può certo rifiutare. La sua compagnia assicurativa, la Sai, compra il 6,7 per cento di Fondiaria e s’impegna a rilevare un ulteriore 22,2 per cento. Il prezzo è da amatori: 9,5 euro per azione, roba da svenarsi. Ma non importa, tanto è Mediobanca che s’incarica di trovare i soldi.
A questo punto però arriva l’intoppo: la Consob (l’autorità di controllo sulla Borsa) analizza l’operazione e dice che è contro le regole: se la Sai vuole Fondiaria, s’accomodi, ma deve lanciare una trasparente, pubblica Opa sul 100 per cento del capitale. Una mossa da far affondare la Sai. È troppo anche per una Mediobanca ormai in declino. Ma gli ostacoli si possono saltare, oppure aggirare, e l’accoppiata Ligresti-Mediobanca ci riesce: scova una banda di «cavalieri bianchi» (Jp Morgan Chase, Interbanca, Mittel, Commerzbank) guidata dal finanziere Francesco Micheli, che compra il pacchetto di Fondiaria e, a cose fatte, lo gira alla Sai. Visto l’andazzo, alla Fondiaria non resta che fare buon viso a cattivo gioco e accettare, nel maggio 2002, la fusione con Sai.
Risultato: Mediobanca ha sgambettato Fiat e ha posto le basi per un grande polo italiano delle assicurazioni, saldamente sotto la sua tutela. Sai più Fondiaria vuol dire la prima compagnia assicurativa italiana nel ramo danni. Se poi si sommano anche le Generali, già nell’orbita di Mediobanca, si ottiene un colosso, pieno di ottimi pacchetti azionari (della Pirelli, di Gemina, di Hdp, della stessa Mediobanca…).
Le ambizioni di Maranghi non si realizzeranno, Mediobanca dopo la morte di Cuccia perde la sua centralità finanziaria, ma intanto Ligresti porta a casa anche Fondiaria, guadagnando molto in prestigio e riuscendo a compiere la sua ennesima resurrezione d’immagine. Quanto ai soldi, è un altro discorso: ne ha spesi tanti ed è finito, come al solito, nelle mani del suo principale finanziatore, Mediobanca, che gli ha imposto – proprio a lui, abituato a fare tutto in famiglia – il manager che dovrà stare attento ai conti: Enrico Bondi, ex risanatore di Montedison, di Telecom e (in seguito) di Parmalat.
Dopo la cura Bondi e il tramonto dell’era Mediobanca, Ligresti si è messo all’ombra di un altro banchiere: Cesare Geronzi. Don Salvatore è fedele e silenzioso come sempre. Il nuovo sponsor lo ha portato al traguardo che ritiene definitivo: l’ingresso in Rcs, che vale il dissolvimento di ogni ombra del passato. Ormai, chi si permette più di ricordare i vecchi tempi? Salvatore Ligresti è un grande finanziere, è coinvolto nei più ricchi affari urbanistici di Milano (Fiera e Garibaldi-Repubblica), di Firenze (Castello e Manifattura Tabacchi), di Torino…
Gode anche di buona stampa. Quando Muhammad Yunus, «il banchiere dei poveri», vince il premio Nobel, i giornali non mancano di ricordare che Ligresti è il gran finanziatore in Italia dell’associazione che sostiene Yunus, Planet Finance, lanciata in Francia da Jacques Attali. E se andrà in porto a Milano la Città della Scienza – con l’Istituto europeo di oncologia, il Centro cardiologico Monzino, il nuovo Istituto neurologico Besta, altre cliniche e le strutture di ricerca delle università – non solo saranno finalmente valorizzate le sue aree agricole a sud di Milano che ospiteranno una cittadella medico-scientifica che non ha eguali in Italia, ma il parco che la contornerà sarà chiamato «parco Ligresti». Sarebbe la sua consacrazione finale e definitiva.
Si è anche ricostituito chirurgicamente la verginità. Ha scovato un articolo del codice che fa tornare immacolata una fedina penale sporca: quando siano passati almeno cinque anni dall’espiazione della pena e il pregiudicato «abbia dato prove effettive e costanti di
buona condotta». Ha presentato domanda al Tribunale di sorveglianza di Milano, che nel settembre 2005 ha accolto la sua richiesta: Ligresti è riabilitato.
Resta invece opaca, anche dopo tanti restyling, la sua struttura societaria. L’oscurità si è trasferita ai piani alti. La holding attraverso cui controlla le società del suo impero è Premafin. E Premafin è della famiglia Ligresti. Ma per arrivare dalla famiglia alla hold-ing bisogna attraversare almeno una decina di società, sparse tra Italia, Svizzera e Lussemburgo. Dai tre figli (Jonella, Giulia, Paolo) si arriva a Premafin passando per tre società lussemburghesi (Hike, Canoe, Limbo) e una fiduciaria (Compagnia fiduciaria nazionale). E don Salvatore? A Premafin ci arriva attraverso due spa (Sinergia e Imco) e una lussemburghese (Star Life). Secondo quanto scritto da Sole 24 ore e Mf, socio di controllo di Sinergia è Fidirevisa Italia, mentre commissario dei conti di Star Life è Fidirevisa sa: due società del gruppo Fidinam, l’impero elvetico di Tito Tettamanti.
Chi conosce le vicende finanziarie italiane a questo punto sobbalza: Tettamanti e Fidinam sono nomi ricorrenti in molte storie scabrose; si sono incrociati con le parabole di tanti finanzieri italiani, da Sergio Cragnotti a Raul Gardini, da Silvio Berlusconi fino a Calisto Tanzi.
Da “Compagni che sbagliano.
La sinistra al governo e altre storie della nuova Italia”
di Gianni Barbacetto, il Saggiatore, 2007