Il ministro che non c’è
» Angelino Alfano
Il ragazzo prodigio che, entrato nel cuore di Berlusconi, a 37 anni è arrivato al dicastero della Giustizia. Dove mette la sua faccia davanti alle “grandi riforme” preparate dagli avvocati del Cavaliere. A partire dal Lodo che porterà per sempre il suo nome.
Attenti, non è un diminutivo: è Angelino perché Angelo, Angelo Alfano, è suo padre. Lui è Angelino dalla nascita, democristiano dalla nascita, e comunque predestinato alla politica, a cui si è preparato fin dalla più tenera età. Papà era uno dei colonnelli della Dc agrigentina. È stato assessore e anche vicesindaco di Agrigento. Ma a volte i discepoli superano i maestri e i figli superano i padri: ebbene, Angelino ha fatto molta più strada di Angelo, e in meno tempo. Ministro, ministro della Giustizia. A 37 anni, nell’Italia dei dinosauri. E da qui a Natale occuperà il centro della scena politica, impegnata a varare la “grande riforma” della giustizia che tanto preme a Silvio Berlusconi. Chi l’avrebbe mai detto in famiglia, solo dieci anni fa?
Detto no, ma neanche escluso. Perché Angelino sapeva di voler arrivare lontano. La famiglia Alfano, a saperla guardare, è una garzantina della storia italiana recente, del trapasso tra prima e seconda Repubblica. Papà Angelo attraversa di corsa la prima, facendo squadra con Gaetano Trincanato, suo capocorrente, da sempre deputato regionale, uno dei padroni della Dc nella Sicilia occidentale. Poi arriva Tangentopoli, Trincanato inciampa in qualche brutta inchiesta, poi si rialza ma intanto la Dc si dissolve e anche Angelo torna a casa. Nel frattempo aveva cominciato la sua corsa Angelino. I compagni del liceo classico “Empedocle” di Agrigento se lo ricordano attivissimo, primo degli eletti alle elezioni per il consiglio d’istituto, il più votato della storia. Un secchione, ma soprattutto un leaderino. Fa in tempo a farsi le ossa nel movimento giovanile della Dc, prima della tempesta. Intanto studia a Milano, all’università Cattolica. Si laurea in Legge nel 1992 con il professor Francesco Realmonte, ma il titolo della tesi (“Associazioni non riconosciute: i partiti politici”) dimostra qual è già la sua vera passione. La laurea arriva insieme a Mani pulite e i partiti di cui tratta nella tesi evaporano in pochi mesi. Non evapora però la sua passione per la politica: nel 1994, a 23 anni, aderisce a Forza Italia, con l’entusiasmo di chi comincia dall’anno zero.
Nel 1996, a 25 anni, viene eletto all’Assemblea regionale siciliana e diventa subito capogruppo degli azzurri. Nel 2001, a 30 anni, vola a Roma, alla Camera dei deputati. È un ragazzo prodigio che si concentra sulla carriera e arriva presto alla meta. Sì, fa un po’ di sport (gli piacciono pallacanestro e canoa). Quanto alle ragazze, beh, è da sempre fidanzato con Tiziana, una compagna di liceo che sposa presto e da cui ha due figli, Cristiano (sei anni) e Federico (due). Gli piace la musica, ama i cantautori, e certo i suoi gusti non combaciano con quelli del capo: non stravede per Apicella, ma va pazzo per Celentano e sa a memoria le canzoni di Guccini, che è corso ad applaudire dal vivo almeno sei o sette volte. Le sue caute trasgressioni musicali non gli impediscono comunque di fare carriera dentro Forza Italia. Il ragazzo era stato subito notato da Gianfranco Miccichè, l’uomo d’azienda (Publitalia) che in pochi mesi aveva costruito il partito di Berlusconi nell’isola. Angelino diventa il pupillo di Miccichè e si fa apprezzare dal regista della missione impossibile, l’uomo che inventa Forza Italia: Marcello Dell’Utri. Per Dell’Utri Angelino mostra deferenza, tanto che quando Marcello è condannato per mafia (9 anni in primo grado), dichiara: «Si sono costruiti teoremi per condannarlo, ma il risultato è che oggi abbiamo un’altra prova che la giustizia è malata». Eppure l’età lo ha salvato dai coinvolgimenti con i vecchi ambienti politico-mafiosi. Alfano, nei primi anni Novanta, partecipava semmai agli appassionati incontri con Leoluca Orlando, alle manifestazioni contro le stragi di mafia, alle veglie per ricordare Falcone e Borsellino.
Anche nella storia di Angelino, però, a voler guardare, c’è un bacio imbarazzante, c’è la partecipazione a un matrimonio mafioso. La “mascariata” comincia a circolare nel 2002: arriva per posta, dentro un pacchetto anonimo. È il filmino delle nozze di Francesco Provenzani, amico di Alfano, celebrato nell’estate del 1996. La sposa, radiosa nel suo vestito bianco, è Gabriella Napoli. Angelino, fresco consigliere regionale e con la testa ancora incredibilmente zazzeruta, arriva in ritardo, accolto da un coro di «ma che onore, ma che onore…». Saluta l’amico, bacia la sposa, le porge il pacco con il regalo di nozze, poi abbraccia il padre della sposa: è Croce Napoli, capomafia di Palma di Montechiaro, un curriculum criminale di tutto rispetto, con arresto per associazione mafiosa, concorso in sequestro di persona, omicidio…
Alfano spiega: ero stato invitato dallo sposo, non conoscevo né la sposa, né suo padre. A differenza di altri incauti baci, di altre incredibilmente distratte partecipazioni a nozze mafiose, la spiegazione questa volta è credibile. Tanto che Angelino viene difeso anche da Giuseppe Arnone, in quel momento il suo più implacabile avversario politico ad Agrigento: «Ho ricevuto anch’io, da un anonimo, la versione integrale del video. Ho subito chiamato Alfano per esprimergli il mio sconcerto per questi sistemi. La lotta politica e la lotta alla mafia non possono nutrirsi di anonimi e veleni».
La “mascariata” tenta forse un regolamento di conti (a base di fango) dentro Forza Italia, in un momento magico per Angelino che, approdato alla Camera, era entrato nel cuore del capo: Silvio Berlusconi lo aveva sistemato a palazzo Grazioli e gli aveva perfino affidato un ufficetto proprio accando al suo ufficione. Veramente il capo l’aveva notato già nel 2000, quando era volato a Roma con Miccichè a spiegargli l’operazione Cuffaro: riportare a destra Totò (che in quel momento era con l’Udeur) e conquistare la Regione, passata nelle mani del centrosinistra. L’operazione era riuscita alla grande e l’anno dopo in Sicilia era arrivato il 61 a zero per il centrodestra.
Poi è andata in scena la tragedia dell’uccisione del padre (non quello naturale, quello politico): Angelino Alfano, Renato Schifani e i loro variopinti amici tolgono a Miccichè il controllo del partito nell’isola. Raffaele Lombardo e il suo movimento autonomista vengono arruolati nell’esercito di Berlusconi e don Raffaele – e non Miccichè – diventa governatore. A questo punto il ragazzo di Agrigento con lo studio a palazzo Grazioli accanto a quello del capo è pronto per i posti più alti. Ha l’età giusta, troppo giovane per essere segnato dalle vecchie storie di Tangentopoli, della prima Repubblica, dei rapporti pericolosi tra mafia e politica. Silvio lo piazza alla Giustizia. Ministro.
Ministro? Qualche malalingua, nel suo stesso partito, dice: «Macché. Il ministro è Niccolò Ghedini». Forse è vero che Alfano non le pensa lui, le “grandi riforme” che il capo vuole, ma le difende tutte, mettendoci la sua faccia. Difende naturalmente anche il progetto di ridurre le intercettazioni giudiziarie, aumentare quelle di polizia e proibire fino al dibattimento la pubblicazione di notizie provenienti da inchieste: anche se qualcuno ad Agrigento gli ricorda il suo passato di giornalista pubblicista per il giornale più letto della città, il settimanale della Curia L’amico del popolo . Per i giornali aveva una vera passione, tanto che alla fine degli anni Ottanta scriveva – e qui dobbiamo svelare un piccolo segreto – anche sul quotidiano La Sicilia . Commenti, note politiche, avvisi ai naviganti: firmati con uno pseudonimo. Chi si celasse dietro quella firma non lo sapeva nessuno, né dentro il giornale né fuori, neppure l’editore e padre padrone Mario Ciancio: i dattiloscritti arrivavano, in maniera un po’ carbonara, nella buca delle lettere della redazione agrigentina della Sicilia , in via Cesare Battisti.
Diventato ministro, Alfano riesce a difendere perfino il decreto bloccaprocessi, che ne ferma centomila per impedire che arrivi a sentenza uno solo, quello a Berlusconi. Poi il bloccaprocessi viene sostituito con il più efficiente lodo Alfano. Sì, lodo Alfano: Angelino entra per sempre nella geografia politico-giudiziaria italiana, dà il suo nome alla legge che garantisce l’impunità al premier (e ad altre tre cariche dello Stato che non ne avevano bisogno). È stato scelto come ministro – gli ha chiesto un intervistatore – per la sua fedeltà? «Ma no», ha risposto lui, «sulla giustizia non c’è effetto sorpresa: chiunque sia il ministro, la linea di Forza Italia è sempre la stessa dal 1994». Tagliare le unghie ai magistrati che si permettono di processare la politica. Forse questa è la volta buona.
Il Venerdì di Repubblica, 3 ottobre 2008