Crimini inconfessabili. L’Italia del golpe permanente. Un libro di Giuliano Turone

Ci sono “crimini inconfessabili” che costituiscono la trama del tessuto storico del dopoguerra italiano. A sostenerlo, con penna da narratore e metodo da investigatore, è Giuliano Turone, che è rimasto giudice istruttore nell’intimo, ben oltre le sue dimissioni dalla magistratura nel 2007, quando lasciò la toga di giudice di Cassazione. Da giudice istruttore, poco più che trentenne, era entrato di persona nel covo-prigione di uno dei primi sequestrati italiani, l’imprenditore Luigi Rossi di Montelera; e aveva poi scoperto il responsabile del sequestro di persona, arrestato la mattina del 16 marzo 1974: era un ometto siciliano che abitava in via Ripamonti 84, a Milano, e che sulla carta d’identità aveva scritto Luciano Leggio, anche se era già noto come boss di Cosa nostra con il nome di Luciano Liggio.
Negli anni seguenti, Turone si era occupato, come tanti suoi colleghi, del terrorismo rosso e già doveva girare per la città con la scorta armata. Poi con il collega Gherardo Colombo indagò sul falso sequestro di Michele Sindona e sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli: durante una perquisizione nell’ufficio di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi scoprirono le liste della loggia P2.
Turone ha continuato a indagare senza toga sulla nostra storia recente, producendo libri tra cui, di grande successo, Italia occulta (Chiarelettere). Ora prosegue quel cammino con Crimini inconfessabili (Fuori Scena), partendo dall’inquietante incidente stradale in cui resta coinvolto Enrico Berlinguer nel 1973 a Sofia. È tentato omicidio, documenta Turone, per togliere di scena il leader del più grande partito comunista dell’Occidente che si stava per affrancare dal campo dell’Unione Sovietica.
Berlinguer sopravvive. Non così il suo omologo nel campo avverso, il leader democristiano Aldo Moro, che con Berlinguer stringe il patto del compromesso storico. Nel 1978 l’amministrazione Usa stila un memorandum contro l’eurocomunismo di Berlinguer. Il 16 marzo di quell’anno le Brigate rosse sequestrano Moro. Il comitato di crisi voluto da Francesco Cossiga per gestire il sequestro è massicciamente presidiato da uomini della P2, che controllano alcuni delicati gangli dello Stato. In quel comitato entra Steve Pieczenik, l’americano mandato a Roma da Henry Kissinger: la sua “falsa trattativa” abbandonerà Moro al suo destino e al piombo delle Br.
Il terzo protagonista di questo dramma italiano è Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Sicilia, fratello dell’attuale capo dello Stato, ma soprattutto l’erede politico di Aldo Moro. Anch’egli non sopravvive: viene ucciso il 6 gennaio 1980, sotto casa, a Palermo. “Nel suo operato politico si era battuto per sradicare i vincoli di reciproco condizionamento tra politici, forze imprenditoriali e organizzazioni mafiose”. Lavorava per rompere il triangolo perverso politica-affari-mafia. Cosa nostra non glielo perdona.
Ma c’è qualcosa di anomalo, nell’omicidio Mattarella: la mafia appare alleata con i neri dei Nar, guidati da Giusva Fioravanti. I mafiosi vogliono togliere di mezzo il politico che ostacolava i loro affari. I killer neofascisti partecipano a un disegno politico: porre fine al tentativo di convergenza politica tra Dc e Pci, ideata da Moro a Roma e anticipata da Piersanti Mattarella a Palermo, nel governo siciliano. Questa è l’ipotesi su cui Turone lavora: “Un’alleanza di Cosa nostra con il terrorismo politico, in particolare con i Nuclei armati rivoluzionari e Terza posizione”. È l’ipotesi su cui ha lavorato anche Giovanni Falcone negli anni 1986-1987, ostacolato ed emarginato dai capi degli uffici giudiziari palermitani.
Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini sono indicati da alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalla destra eversiva (tra cui il fratello di Giusva, Cristiano) come gli autori materiali dell’omicidio Mattarella. La vedova di Piersanti riconosce in Giusva il killer del marito. Un nero, Alberto Volo, rivela che l’omicidio era stato chiesto da Licio Gelli per bloccare le aperture al Pci. Ma il processo che è stato celebrato assolve Fioravanti e Cavallini e oggi l’inchiesta riaperta dalla Procura di Palermo sembra diretta a indicare i killer in due uomini di Cosa nostra, Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese.
Poi è la strage di Bologna a diventare il centro della analisi di Turone, che la disseziona per ricostruirla come “strage della P2”, finanziata con i soldi del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (a sua insaputa) e il contributo di “Zafferano”, il re delle spie italiane, Federico Umberto D’Amato, già potentissimo capo dell’Ufficio affari riservati del ministro dell’Interno.
È un’Italia da golpe permanente, quella che esce dalle pagine di Crimini inconfessabili. Il potere della P2, apparentemente disarticolato dopo la scoperta delle liste, sopravvive. Segrete restano le liste e i documenti dell’archivio uruguaiano di Licio Gelli, fatto sparire dalla Cia. E “il sistema P2, dopo avere attraversato una breve crisi determinata dall’esito della perquisizione di Castiglion Fibocchi del 17 marzo 1981”, scrive Turone, “ha recuperato tutto il suo potere già a partire da uno o due anni dopo”.
L’Italia è stata stretta per decenni nella tenaglia tra “atlantismo estremo” e “ottusità sovietica”: è quella che stritola Berlinguer, Moro e Mattarella, nel quadro geopolitico della Guerra fredda e relativa strategia della tensione che “hanno ridotto ai minimi termini la sovranità del nostro Paese”. Così “le stragi, teorizzate dal lugubre Manuale Westmoreland come ‘utili operazioni speciali di stabilità’”, sono pianificate “per perseguire cinicamente” gli obiettivi di un “atlantismo esasperato e spesso criminale”.
Arriva, finalmente, la caduta del Muro di Berlino. “L’America scopre che il pericolo comunista non c’è più, ma il sistema P2 non è d’accordo”, annota Turone. E il suo “golpe strisciante” si ripresenta nei primi anni Novanta, con la nuova strategia della tensione delle stragi politiche corleonesi a Palermo, ma anche a Firenze, Roma, Milano. Poi arriva Silvio Berlusconi. “Insieme al terrore delle stragi mafiose, su cui ancora si indaga perché quello che sappiamo e quello che raccontano schiere di pentiti non basta a spiegare tutto quello che è avvenuto. Basta solo a sapere che quelle operazioni terroriste non possono essere rubricate solo come espressione della follia omicida di Totò Riina. Occorre raccontare quei fatti attraverso l’intero sistema di potere che li ha generati. Occorre cioè rifare la storia”.