MILANO

Il sacco di Milano. Ora gli impiegati piangono. E noi?

Il sacco di Milano. Ora gli impiegati piangono. E noi?

È una bella iniziativa quella assunta dal Comune di Milano di fornire una assistenza psicologica ai dipendenti del settore Urbanistica, sotto stress per le inchieste della Procura di Milano volte a verificare se ci siano stati abusi edilizi, nelle concessioni a costruire nuovi grattacieli come fossero “ristrutturazioni” e in palazzoni fatti edificare senza piani urbanistici.

Il quotidiano La Repubblica ci informa che ci sono stati “pianti nei corridoi degli uffici” e “crisi familiari”. È dunque bene dare assistenza a chi si è trovato coinvolto nella vicenda, non ha inventato il nuovo Rito Ambrosiano (che permette di costruire dove e come si vuole alla faccia delle leggi nazionali), ma ha verosimilmente seguito le “consuetudini” e le indicazioni dei capi, dei dirigenti, dell’assessore, del sindaco.

Certo, sarebbe bello che la pagassero con i loro soldi, l’assistenza psicologica e quella legale ai poveri impiegati stressati. E sarebbe bello allargassero l’assistenza anche alle vittime delle loro scelte amministrative: i cittadini di Milano che si vedono costruire una torre nel loro cortile, o che vedono arrivare sei grattacieli sul bordo del parco Lambro senza che siano stati calcolati i servizi loro dovuti (verde, asili, trasporti eccetera) per l’arrivo di 2 mila nuovi abitanti dove prima c’era un prato.

Ma gli impiegati stressati che poverini hanno seguito – dice l’assessore Giancarlo Tancredi – le “consuetudini”, non hanno mai avuto un dubbio, un’indecisione, una perplessità, una titubanza, un’esitazione, un’incertezza, sul fatto che tirar su un grattacielo di 82 metri al posto di un laboratorio di due piani potesse essere considerato “ristrutturazione”?

Intanto si allunga la lista delle inchieste. Dopo il palazzo nel cortile di piazza Aspromonte, la Torre Milano di via Stresa, le Park Towers di via Crescenzago, il Bosconavigli di viale Cassala, si sono aggiunte anche le demolizioni di via Crema, quelle di via Lamarmora e un altro palazzo costruito in un cortile, questa volta in via Fauchè. Il sindaco e l’assessore l’hanno ammesso: sono almeno 150 i progetti che potrebbero essere fuorilegge. Più che il trionfo delle “consuetudini”, sembrerebbe il sacco di Milano, le mani sulla città.

Ma qui siamo al nord, mica a Napoli o Palermo: il marketing abbellisce i fatti, lo storytelling li nobilita. Da noi riempire i vuoti cementificando ogni spazio residuo di una delle città più inquinate d’Europa e sostituire vecchi magazzini o palazzine malandate con una bella torre residenziale di lusso grande sette volte ciò che c’era prima si chiama “rigenerazione urbana”.

Bello, no? Suona bene. Profuma di nuovo, di bello, di pulito. Mica come quei cafoni del sud. Noi abbiamo la Ferragni, mica Geolier. Le mani sulla città a Milano sono curate, trattate con le creme giuste e la manicure appropriata. Sono abituate più ai computer della finanza che alle betoniere dell’edilizia e alle pistole della mafia. Da noi i palazzinari si chiamano “sviluppatori” e raccontano in giro che fanno il bene della città perché abbattono il brutto e costruiscono il bello. Perché opporsi a questa meravigliosa onda?

Ora gli impiegati “piangono” (Rep) e i costruttori “tremano” (Il Giorno). Soffrono perché la pacchia è finita, ma la raccontano così: “State fermando lo sviluppo della città”. Il ritorno alla legalità è raccontato come una sciagura per le magnifiche sorti e progressive. È solo la fine di uno sviluppo drogato, in cui Milano è diventata un paradiso fiscale dell’immobiliare, che attira i capitali dei fondi, arricchisce pochi e impoverisce i più: la maggioranza di noi milanesi, che restiamo con meno verde, meno servizi, trasporti più scarsi, prezzi più alti, affitti impossibili. Dateci lo psicologo anche a noi.

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Il Fatto quotidiano, 1 marzo 2024
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