Milan. Da Macao, da Hong Kong arriva un bastimento carico di…
Dalla Cina, da Macao, da Hong Kong: sono arrivati a Milano i documenti chiesti per rogatoria internazionale dalla Procura per l’inchiesta sull’operazione finanziaria più fumosa e contorta degli ultimi anni, la cessione del Milan di Silvio Berlusconi all’imprenditore cinese Yonghong Li e poi al fondo americano Elliott. Sono documenti bancari con cui i pm stanno cercando di ricostruire i passaggi dei soldi arrivati dall’estremo oriente per comperare la squadra di calcio milanese.
Di certo vengono da Cina, Macao e Hong Kong, ma il punto di partenza iniziale è ancora tutto da scoprire, visto che Yonghong Li non sembra avere affatto il peso imprenditoriale e finanziario per sostenere in proprio i flussi di denaro che hanno fatto diventare il Milan, almeno per qualche tempo, cinese. Li è per ora l’unico iscritto nel registro degli indagati, per false comunicazioni sociali: quelle diffuse dalla società A.C. Milan spa nei mesi in cui era controllata da Li.
È dal gennaio 2018 che il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Paolo Storari cercano di capire che cosa sia successo, dopo che sulle loro scrivanie erano arrivate le “sos”, ovvero le “segnalazioni di operazioni sospette” a proposito delle stravaganti e fantasmagoriche transazioni internazionali che avevano portato il Milan a uscire dalle proprietà di Berlusconi per entrare nel portafoglio di un uomo d’affari sconosciuto anche in Cina.
Un’operazione da 740 milioni di euro, il prezzo dichiarato per comprare una squadra che pure allora appariva in affanno. Chi ce li ha messi, quei soldi? Nell’agosto 2016 Yonghong Li versa alla Fininvest una prima rata di 100 milioni. A pagare è Sino Europe Sports, una società nata un paio di mesi prima, il 26 maggio 2016. A fine 2016 ecco una seconda rata da 100 milioni, ma la chiusura dell’affare slitta di mese in mese perché non arrivano altri soldi.
La vendita sembra quasi sfumare, quando entra invece in scena, nell’aprile 2017, il fondo Elliott che presta oltre 320 milioni, finanziamento a 18 mesi, interessi dell’11,5 per cento: 120 milioni al Milan, 200 a una società del Lussemburgo. Si chiude finalmente la vendita, con un giro di società estere nelle migliori tradizioni berlusconiane: il Milan risulta controllato da una lussemburghese controllata da un’altra lussemburghese controllata da una società di Hong Kong controllata da una holding delle Isole Vergini Britanniche. A ottobre 2018 però il prestito è scaduto, Li non ha pagato e il 10 luglio 2018 il Milan è diventato di Elliott.
Il fondo “avvoltoio” di Paul Elliott Singer è considerato la più grande centrale d’investimenti finanziari al mondo, dietro cui si muove una moltitudine di investitori anonimi. Quali sono quelli che si sono mossi nell’operazione Milan? Secondo Report, a entrare in azione sono stati due italiani, Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo. Il fondo Elliott ha subito smentito con una nota: “Elliott Associates Lp ed Elliot International Lp hanno congiuntamente il completo controllo della holding a cui fa capo A.C. Milan. Elliott detiene il 96 per cento del club, mentre la restante quota è di pertinenza dei nostri partner”.
I giornalisti di Report, in un servizio andato in onda lunedì sera, hanno ricostruito sulla base di documenti lussemburghesi che Cerchione e D’Avanzo “detengono, attraverso Blue Skye, poco più del 50 per cento delle quote della Project Red Black, la società che a sua volta controlla la Rossoneri Sport Investment, usata dal cinese Li per acquistare il Milan. Cerchione e D’Avanzo hanno come soci nella Project anche due società anonime del Delaware”.
Cerchione, 49 anni, nato a Napoli e residente negli Emirati Arabi, e D’avanzo, 45 anni, napoletano residente nel Regno Unito, sono membri del consiglio d’amministrazione della A.C. Milan spa, di cui è presidente Paolo Scaroni, in passato amministratore delegato di Eni e oggi vicepresidente di Rothschild, la banca d’affari che aveva garantito “la completa affidabilità finanziaria” di Li.
Previsione sbagliata. “Siamo andati presso la sede della sua società”, ha raccontato a Report Sui-Lee Wee, corrispondente a Pechino del New York Times. “Quello che abbiamo trovato è un ufficio abbandonato con un avviso di sfratto appiccicato all’ingresso e addirittura i vermi nei cestini dell’immondizia. Mi chiedo chi abbia fatto la due diligence sulle società di Li, ammesso che ce ne sia stata una”.