La lunga storia nera del generale Francesco Delfino
Il 23 gennaio 2001 la Corte di cassazione ha reso definitiva la condanna per il generale dei carabinieri Francesco Delfino: tre anni e quattro mesi di reclusione, per truffa aggravata. Secondo la sentenza, Delfino avrebbe approfittato del rapimento del suo amico Giuseppe Soffiantini, per truffare alla famiglia 800 milioni, in cambio della promessa di far liberare il sequestrato. Ma Delfino ha una lunga storia nera alle spalle. Eccola.
1. Il mafioso che portò a Riina
Nella notte tra l’8 e il 9 gennaio 1993, in una stanzetta del Nucleo operativo dei Carabinieri di Novara, un meccanico di 39 anni, abitante a Borgomanero, chiede di parlare con un capo, un pezzo grosso, un generale: deve fare una scelta radicale, può rivelare cose delicatissime. È stato arrestato a sorpresa nella sua officina, gli hanno trovato una pistola Tanfoglio. Ma sa bene che non è per quell’arma che lo tengono blindato. Si chiama Baldàssare Di Maggio detto Balduccio, è nato a San Giuseppe Jato provincia di Palermo, è uomo d’onore, boss di Cosa Nostra, molto vicino al capo dei capi, Totò Riina ’o Curtu. Balduccio è fuggito al Nord perché ha capito che nello scontro che lo oppone a Giovanni Brusca, ’o Curtu si è schierato con i Brusca: vuol dire essere già morti. Sono ormai le due di notte quando, chiamato dal tenente colonnello Vincenzo Giuliani, comandante provinciale dei Carabinieri di Novara, arriva il «pezzo grosso» che Baldàssare ha chiesto. È il generale dei carabinieri Francesco Delfino.
Quella notte iniziò la collaborazione di Balduccio Di Maggio e la caccia a Riina. Quella notte il generale Delfino tentò di aggiungere un altro mattone alla sua carriera e nuovo lustro alla sua leggenda: usare Di Maggio per farsi portare da Riina.
«Sono disposto a rivelare quanto so su Cosa Nostra. A instaurare un rapporto di collaborazione solo ed esclusivamente con il generale Delfino, con il colonnello Tassi, il tenente colonnello Giuliani e magistrati solo se accompagnati da uno dei predetti ufficiali»: questo è l’impegno che viene fatto sottoscrivere a Balduccio dal generale. Di Maggio riempie due fogli di schizzi e indicazioni, con «l’ubicazione delle due ville dove ho visto in Palermo Totò Riina». A pagina 13 il verbale ribadisce: «Sono comunque disponibile a continuare la collaborazione alle condizioni che ho dettato all’inizio e cioè di poter parlare con il generale Delfino, il colonnello Tassi e il tenente colonnello Giuliani e con un magistrato da uno dei tre accompagnato…».
Quella notte, a Novara, furono ben tredici i carabinieri che firmarono, insieme a Delfino, il fatidico verbale. Quella notte nacquero molti dei misteri aperti ancora oggi attorno a Di Maggio. Fu il solo Delfino a interrogare Balduccio, dicono voci raccolte dentro l’Arma, e le tredici firme furono aggiunte a verbale chiuso. Il generale interrogò Di Maggio senza averne la facoltà, poiché non era stato delegato da alcun magistrato a svolgere funzioni di polizia giudiziaria. La dottoressa Marina Caroselli, il giovane pubblico ministero di Novara che si occupò del caso, ebbe anzi uno scontro durissimo con il generale, che si comportò con lei in modo volgare, prima insinuante e poi aggressivo.
Quella notte Di Maggio parlò anche di Andreotti, ma Delfino gli disse di lasciar perdere l’argomento, di concentrarsi invece su Riina; e gli promise un miliardo: andò davvero così? Solo Delfino e Balduccio sanno la verità.
Certo è che, dopo quella notte, la vicenda non si sviluppò come Delfino sperava. Di Maggio fu trasferito a Palermo e la cattura di Riina fu realizzata dal Ros (il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri) del generale Mario Mori e del capitano «Ultimo». Ma Delfino ha comunque tentato di accreditarsi come l’uomo che permise la cattura del boss dei boss: diffondendo una versione dei fatti secondo cui è tutto suo il merito della cattura di Riina.
2. La leggenda sull’eroico capitano
Quante leggende, attorno all’«ufficiale più decorato dei Carabinieri», oggi condannato in via definitiva per aver estorto quasi un miliardo alla famiglia Soffiantini. Ma anche quante imprecisioni, ambiguità, bugie, diffuse grazie a un’ottima capacità di tessere rapporti con la stampa. Delfino è abilissimo a costruire il proprio personaggio, a nutrire il mito. Sparge informazioni che lo accreditano come l’uomo che ha arrestato Curcio nel 1976, anche se non è vero. Non ha mai lavorato all’antiterrorismo insieme al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, malgrado lo abbia lasciato credere. Non ha avuto un ruolo determinante nell’arresto di Riina, benché se lo sia attribuito.
Le imprecisioni e le bugie iniziano fin dalla fondazione della sua leggenda: lo scrittore Corrado Alvaro avrebbe «cantato le gesta di Massaru Peppi», al secolo Giuseppe Delfino, brigadiere dei Carabinieri e padre del generale. Ma Alvaro, in Gente in Aspromonte, Massaru Peppi non lo nomina proprio. In un racconto di Alvaro, Il canto di Cosima, compare sì un carabiniere, chiamato «il Delfino», ma trattato non proprio con deferenza: «Ma sì, il Delfino serviva la legge; altrimenti, così malizioso, sarebbe stato un ladro che non lo avrebbe acchiappato nessuno». Quasi una profezia.
Semmai è il fratello del generale, Antonio Delfino, insegnante, preside e giornalista, a creare, insieme, il mito del padre (Massaru Peppi lo sbirro) e del suo antagonista (Nirta il pecoraio): nel libro Gente di Calabria celebra l’epopea di un carabiniere in lotta contro una criminalità contadina dedita ai furti di capre e pecore, ben diversa dalla ’Ndrangheta organizzata, cresciuta nel secondo dopoguerra.
Oggi, dopo che «il Delfino» è stato «acchiappato», qualcuno ha scritto che l’arresto di un generale dei Carabinieri è un cattivo segnale per il Paese. Ma perfino dentro l’Arma ora qualcuno ha il coraggio di dire che il cattivo segnale è un altro, è che certi personaggi in questo Paese abbiano potuto diventare generali, è che quel generale non sia stato fermato prima.
La storia di Delfino è la storia degli incubi della Repubblica. La sua carriera ha attraversato tutti i grumi oscuri del paese, dall’eversione nera alle stragi, dal terrorismo rosso alla mafia siciliana, dai sequestri di persona della ’Ndrangheta calabrese fino a quelli dell’Anonima sarda. Fino all’arresto e alla condanna per il sequestro Soffiantini, occasione per mettere in fila tanti capitoli che formano, insieme, la vita di un uomo spregiudicato e la storia di un paese a legalità limitata.
3. Le imprese del «capitano Palinuro»
Francesco Delfino nasce il 27 settembre 1936 a Platì, provincia di Reggio Calabria, paese ad altissima densità mafiosa. Dopo il liceo classico frequentato a Locri entra nell’Arma e frequenta la Scuola allievi sottufficiali. Nel 1957, vicebrigadiere a Rho, in provincia di Milano, conosce Carla Valsesia, bella professoressa di Lettere, che diventa sua moglie. Poi per due anni è a Modena, all’Accademia militare, da cui esce sottotenente. A Roma frequenta la Scuola ufficiali, poi nel 1963 torna al Nord, a Verolanuova, nel Bresciano, come tenente.
Nel 1965 approda a Luino, sul Lago Maggiore. Si iscrive alla facoltà di Scienze politiche a Pavia. Ma comincia a costruire una sua rete di rapporti. Racconterà, molti anni dopo, il «pentito» di ’Ndrangheta Saverio Morabito a Piero Colaprico e Luca Fazzo: «Mio padre, gli ultimi giorni di luglio, ogni volta che dovevamo andare in Calabria per le ferie, cominciava a prepararsi e faceva una capatina in Svizzera, a fare il rifornimento di sigarette. A Luino all’epoca c’era il tenente Francesco Delfino. Mio padre gli telefonava, andava a trovarlo, passavano la giornata insieme, poi mio padre andava dall’altra parte del confine, faceva rifornimento di sigarette, zucchero, caffè, cioccolato, caricava, caricava…».
Nel 1969 a Delfino danno la tenenza di Sòrgolo, nel Nuorese, e nel 1970, a Cagliari, si laurea con una tesi sui sequestri di persona. Il ragazzo è sveglio. In Sardegna, da capitano, indaga sulla serie nera dei rapimenti del ’70, arresta Giuseppe Càmpana detto il Rubbino, luogotenente di Graziano Mesina, e scopre gli autori della strage di Lanusei, cinque morti.
Nel 1971 si trasferisce a Brescia: inizia la sua carriera d’oro, e iniziano le voci che già lo indicano come uomo dei servizi segreti. Comincia a indagare su alcuni misteriosi attentati alle linee ferroviarie in Valtellina. Opera del Mar, il Movimento di Azione Rivoluzionaria guidato da Carlo Fumagalli, partigiano «bianco» e, negli anni Sessanta, agente Cia nello Yemen: il Mar è una formazione armata anticomunista, golpista, ma non fascista; una struttura filoatlantica, a disposizione degli oltranzisti filoamericani, con saldi contatti dentro le istituzioni. Nonostante quei contatti, il 9 maggio 1974 Delfino arresta Fumagalli. «Ho preso Carletto!», telefona contento agli amici.
Due mesi prima, il 9 marzo, aveva bloccato due neofascisti delle Sam (Squadre di Azione Mussolini), Kim Borromeo e Giorgio Spedini. Erano a bordo di un’auto imbottita d’esplosivi. L’operazione era stata realizzata grazie a Luigi Maifredi, uno dei tanti «confidenti» di cui è piena la carriera di Delfino: più che informatori per prevenire reati, veri e propri agenti provocatori con il compito di gestire dall’interno operazioni illegali. L’arresto dei due fascisti, lasciati percorrere indisturbati un lungo tratto di strada e poi bloccati proprio a Sonico, in provincia di Brescia, serve a Delfino per incardinare a Brescia (cioè a se stesso) le indagini sul Mar di Fumagalli.
4. La strage nera
Nella notte tra il 18 e il 19 maggio esplode in piazza Mercato a Brescia un ragazzino neofascista, Silvio Ferrari, a cavallo di una Vespa che trasportava una carica di tritolo. La fidanzata di Ferrari è una bella ragazza diciassettenne, Ombretta Giacomazzi. Molti anni dopo, Ombretta sposerà Carlo Soffiantini, uno dei figli dell’industriale sequestrato. Oggi Giordano, fratello di Carlo, ha dichiarato: «Delfino, quando era capitano, aveva indotto Ombretta a testimoniare il falso, dopo averla arrestata».
Ma il culmine di quel tremendo 1974, anno di stragi, d’intrighi e di colpi di Stato minacciati, è il 28 maggio: in piazza della Loggia, a Brescia, esplode una bomba che fa otto morti e 94 feriti. Delfino porta ai giudici, che per la strage stanno seguendo la pista dei fascisti milanesi, un colpevole bresciano, Ermanno Buzzi. È Ugo Bonati, un uomo della banda di Buzzi, ad accusare quella strana figura di fascista e trafficante d’arte.
Bonati, poi, scompare e ancor oggi non si sa che fine abbia fatto. Buzzi è ucciso da suoi camerati nel carcere di Novara, strangolato con le stringhe delle scarpe. E la strage di Brescia è restata senza colpevoli.
Il senatore Giovanni Pellegrino scrive nella sua proposta di relazione alla Commissione parlamentare sulle stragi: «Lascia adito a fortissime perplessità la circostanza che il capitano Delfino imprima all’inchiesta su piazza della Loggia una direzione che si è rivelata improduttiva, indirizzandola verso lo sgangherato ed eterogeneo gruppo che ruotava attorno a Ermanno Buzzi. Dall’altro lato, avviene che l’inchiesta sul Mar non raggiunga quel grado di approfondimento che avrebbe potuto consentire il disvelamento del contesto eversivo in cui la strage bresciana può oggi affermarsi inserita».
Oggi è possibile sapere qualcosa di più del capitano Delfino, il carabiniere che arrestava i «neri»: secondo alcuni testimoni, era un «nero» egli stesso, invischiato nel grande gioco dell’eversione degli anni Settanta. O meglio: era un uomo dello Stato che, all’occorrenza, si faceva passare per «nero» e usava spregiudicatamente i «camerati» per la sporca guerra senza esclusione di colpi che si stava combattendo.
Racconta Carmine Dominici, ferroviere, ‘ndranghetaro politicizzato, neofascista di Avanguardia Nazionale (al giudice di Milano Guido Salvini, verbale del 29 settembre 1994): «So che esisteva un ufficiale dei Carabinieri che curava il trasporto di timer ed esplosivi verso il nostro ambiente avanguardista calabrese. Non so il nome, ma so per certo che un ufficiale dei Carabinieri a cognome Delfino, appartenente a una Loggia massonica, era legato ad Avanguardia Nazionale. Era considerato “dei nostri”. Specifico che con la parola “nostri” indicavamo coloro che anche operativamente operavano con Avanguardia, a differenza della parola “vicini” con la quale indicavamo coloro che davano appoggio, ma senza partecipare a fasi operative; tra questi ricordo il Miceli e il Birindelli».
Perché Avanguardia Nazionale aveva stretto contatti con Delfino? Perché, risponde Dominici a Salvini nel 1994, «erano notori i legami di Delfino con la criminalità organizzata e quindi era da considerare interlocutore di adeguato livello». Ne risulta un bel mix di eversione e criminalità, di «neri» e di mafiosi, in cui gli uomini dello Stato, di alcuni apparati segreti dello Stato, giocano un gioco pericoloso.
Delfino in quegli apparati è dentro fino al collo: è lui, dicono oggi i magistrati di Roma, quel «capitano Palinuro» che nel giugno 1973 partecipa a una cruciale riunione a Milano, nella zona della Galleria Vittorio Emanuele, per mettere a punto i piani del Golpe Borghese. Erano presenti, oltre a «Palinuro», tutte le componenti politiche e militari del piano, il colonnello Amos Spiazzi, i finanziatori genovesi De Marchi e Lercari (amministratore della Piaggio), un capo di Ordine Nuovo rimasto sconosciuto.
È Delfino, ribadiscono oggi le carte processuali, quel «capitano Palinuro» che forniva alle Sam armi ed esplosivi (tra cui gelignite). Maestro del doppio gioco: «Palinuro» dava armi ai camerati, Delfino poi, quando conveniva, li arrestava (come aveva fatto con Borromeo e Spedini). Sempre nel 1974, tramontato il progetto golpista, aveva portato in carcere anche Adamo Degli Occhi, l’avvocato milanese leader della Maggioranza Silenziosa, movimento d’opinione con il compito di sostenere le azioni dei golpisti.
Secondo i documenti trasmessi a Roma dal giudice Salvini, Delfino sarebbe uno degli ufficiali italiani più vicini alla Cia, il servizio segreto degli Stati Uniti: e fin dai primi anni Settanta. Lui, davanti alla Commissione stragi riunita in seduta segreta, nega: «Vengo continuamente pedinato, io, dalla Cia. E ho dovuto lasciare gli Stati Uniti, forse perché ho toccato qualcosa che non dovevo toccare».
Eppure il neofascista Biagio Pitarresi (quello che ha raccontato lo stupro «di Stato» ai danni di Franca Rame) parlò di Delfino con Carlo Rocchi, uomo della Cia a Milano: «Rocchi mi disse che mi avrebbe portato a conoscere il generale Delfino, che era “uno dei loro”, ossia persona legata ai servizi statunitensi, e che avrebbe dovuto provvedere alla mia copertura dopo l’esecuzione dell’attentato». Quale attentato? Quello che era in preparazione nei confronti del procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, coordinatore del pool Mani pulite, e che fu davvero tentato (ma sventato per la prontezza di un uomo della scorta) il 14 aprile 1995.
5. Le mani sulle Br
Encomi e medaglie al generale sono arrivati anche per «l’ottimo lavoro» svolto nei confronti del terrorismo rosso. Lavoro «doppio», anche in questo caso. Delfino, dopo le esperienze bresciane, nel dicembre 1975 è distaccato a Milano con la sua squadretta: deve occuparsi di brigatisti. Dopo qualche settimana di pedinamenti, viene scoperto il «covo» di via Maderno 10. Quando però, il 18 gennaio 1976, gli uomini dell’allora maggiore Nicolò Bozzo arrestano (con tanto di conflitto a fuoco) Renato Curcio e Nadia Mantovani, Delfino è già nelle Marche, sulle tracce di Patrizio Peci. Nel marzo 1976 è invece presente di persona, pistola in pugno, alla Stazione Centrale di Milano e dopo un conflitto a fuoco arresta il brigatista Giorgio Semeria, appena sceso dal treno proveniente da Venezia. È un informatore, anche questa volta, la carta vincente di Delfino: un padovano fiancheggiatore delle Br lo avverte del viaggio di Semeria.
Nel 1978, quando le Brigate Rosse fanno il colpo grosso, cioè il sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, la mano di Delfino si fa sentire ancor più pesante. «Un suo uomo, Antonio Nirta, della ’Ndrangheta calabrese, è presente in via Fani al momento del rapimento»: così racconta il «pentito» calabrese Saverio Morabito al magistrato milanese Alberto Nobili, che manda a Roma le carte raccolte. Il sostituto procuratore Antonio Marini procede nelle indagini e si imbatte in un altro personaggio, Alessio Casimirri, brigatista rosso diventato confidente di Delfino: Casimirri avrebbe raccontato al generale che era in preparazione il rapimento Moro e Delfino, invece di avvertire i magistrati, avrebbe passato la notizia al Sismi, il servizio segreto militare. Risultato: Moro ucciso il 9 maggio 1978, Casimirri «esfiltrato» dai servizi prima in Francia e poi in Nicaragua, Delfino promosso il 6 giugno 1978 e passato al Sismi. Incarichi all’estero, ad Ankara, Bruxelles, Il Cairo, Stati Uniti…
6. L’antimafia del generale
Delfino rispunta in Italia nel 1887, con il grado di colonnello (anche se non ha mai comandato prima, come è d’uso tra i Carabinieri, una compagnia e un gruppo). Dopo aver attraversato terrorismo nero e rosso, si tuffa nella nuova emergenza nazionale: Cosa Nostra.
In attesa di un nuovo incarico è inviato a Palermo come vicecomandante della Legione. Un incarico non operativo, dicono all’Arma, un parcheggio: aveva la responsabilità dell’ufficio amministrazione, della motorizzazione e dell’infermeria. Ma Delfino non la racconta così: sostiene di aver raccolto 400 uomini in un capannone dove erano riparati gli elicotteri e, «senza dire a nessuno l’obiettivo perché è mia abitudine non fidarmi di nessuno», di essere partito alla ricerca di Riina. Dove? Nella villa in costruzione di Balduccio Di Maggio. «Purtroppo», racconta Delfino alla Commissione parlamentare antimafia il 25 giugno 1997, «non ho trovato Riina in quella villa in costruzione, quasi ultimata, di un personaggio che nessuno conosceva come l’autista di Riina».
La leggenda aggiunge particolari mirabolanti all’impresa di Delfino a Palermo: la scoperta di lunghissimi cunicoli sotterranei che partivano dalla villa di Di Maggio; l’esplosione dell’auto di Delfino, addirittura nel cortile della sede della Legione… Agli altri Carabinieri tutto ciò non risulta.
Vero è invece che Delfino viene assegnato al comando della Legione di Alessandria. «Dissero che a Palermo mi agitavo troppo», spiega Delfino alla Commissione antimafia, lasciando capire che la sua intenzione di cercare davvero i boss latitanti era stata la causa del suo allontanamento.
Delfino cerca di rientrare in gioco a Palermo quando a Novara gli capita tra le mani Di Maggio: per una assoluta casualità (Balduccio, arrestato a Borgomanero su impulso dei Carabinieri di Palermo che avevano cominciato a cercarlo già nel primo semestre del 1992, chiede di parlare con un pezzo grosso, un generale, durante quella lunghissima notte del 9 gennaio ’93 a Novara). Che cosa si dissero, quella notte, Delfino e Di Maggio? Il generale promise davvero un miliardo a Balduccio in caso di «pentimento»? Balduccio raccontò davvero già in quelle ore la storia del bacio tra Riina e Andreotti, che Delfino si guardò bene dal mettere a verbale? Ci furono altri patti segreti stipulati quella notte?
Certo è che Delfino non consegnò quello strano verbale, firmato da ben quattordici carabinieri, al magistrato di turno della procura di Novara, la dottoressa Caroselli, ma lo portò a Gian Carlo Caselli, che era a Torino in attesa di partire per Palermo, dove, dopo la morte di Giovanni Falcone, aveva chiesto di andare a fare il procuratore della Repubblica. Delfino cercò di agganciarsi a Caselli e di essere trascinato con lui in Sicilia, a occuparsi delle ricerche di Riina. Ma Caselli non accettò l’offerta e Delfino fu allora costretto a trasmettere gli atti a Palermo, dove entrò in scena la squadra di «Ultimo».
Con tutto ciò, Delfino non mancò di far filtrare sulla stampa che il merito della cattura di Riina era suo. E, prima di ciò, fece trapelare la notizia dell’arresto di Di Maggio e del suo «pentimento», che doveva restare segreto il più a lungo possibile.
7. Affari e politica, un’indagine a Catania
Il nome di Delfino ricompare, a sorpresa, in un’altra indagine di mafia. I magistrati di Catania mettono sotto osservazione, attorno al 1994, un gruppo di colletti bianchi che fa riferimento ai boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, Aldo Ercolano e Giuseppe Pulvirenti. Quei colletti bianchi sono l’uomo d’affari catanese Felice Cultrera e i suoi soci, Gianni Meninno a Bologna e Walter Beneforti a Milano, in contatto, tra l’altro, anche con Alberto Dell’Utri. I business che hanno in corso sono di tutto rispetto: la costruzione di 5 mila appartamenti a Tenerife; l’acquisto di quote dei casinò di Marrakech, Istambul, Praga, Malta, Montecarlo, da usare per riciclare denaro sporco; la commercializzazione e la ricettazione di titoli al portatore; l’intermediazione di armi pesanti e l’acquisto di elicotteri (con la presenza nell’affare di una vecchia conoscenza delle inchieste sul traffico d’armi e droga, il miliardario arabo Adnan Khashoggi); l’avvio di attività finanziarie in Spagna, Arabia Saudita, Israele, Giordania, Egitto, Marocco, Turchia, Cecoslovacchia, Russia, Corea, Hong Kong, Montecarlo… Un vortice di movimenti, di contatti, di incontri.
Ma mentre Cultrera e soci fanno affari che dimostrano una vastissima disponibilità di capitali, non dimenticano di stringere rapporti ad alto livello con uomini della politica e con rappresentati dello Stato. Cultrera, Meninno e Beneforti parlano più volte al telefono, intercettati dagli uomini della Dia, con personaggi delle istituzioni e perfino con un notissimo generale dei carabinieri: Delfino, appunto, che nel 1994 è a Roma, al vertice della Direzione centrale antidroga.
Ore 23.04 del 15 gennaio 1994: Cultrera conversa con il suo socio Meninno. Questi fa cenno «al generale» e raccomanda a Cultrera di «non insistere», assicurando che seguirà lui personalmente «la cosa» con Beneforti. La mattina del 2 febbraio seguente, alle 9.12, Cultrera chiama Beneforti da Lisbona e gli dice che «è il momento buono» per andare a Roma. Il suo interlocutore risponde che telefonerà subito «a quell’amico» per fissare un appuntamento.
Alle 9.18, appena chiusa la conversazione, compone lo 06.51994435. È un numero del ministero dell’Interno, Direzione centrale antidroga. «Pronto, sono il dottor Franz», dice Beneforti al centralinista, mentendo sulla propria identità. «Vorrei parlare con il Comandante». Quando gli viene passato Delfino, gli si rivolge con familiarità, dandogli del tu, e gli comunica che «c’è qualche buona speranza filatelica» che spera di portare a conclusione entro il mese di febbraio. Il generale risponde che ha capito. Poi Beneforti dice che avrebbe piacere d’incontrarlo, di fare una chiacchierata con lui per fare il punto sulla situazione; e chiede se può portare la persona che «lui sa».
Delfino risponde di no. Alle rimostranze di Beneforti, il generale replica che spiegherà il perché quando parleranno di persona. «Ma c’è qualcosa su di lui?», chiede Beneforti. E Delfino: «Ma c’è…, c’è…, c’è e non c’è. È che lui lo deve capire!». I due chiudono la conversazione dopo una contrattazione sul luogo dell’incontro e la decisione di risentirsi al telefono il lunedì successivo.
Walter Beneforti è una vecchia conoscenza di chi ha qualche familiarità con le vicende nere d’Italia. Durante la guerra lavorò per i servizi speciali della polizia americana a Trieste, in quegli anni punto di convergenza dei servizi segreti di ogni parte del mondo. Nel 1956 fu inviato a Roma, all’Ufficio Affari Riservati. Fino al 1960, quando cadde il governo Tambroni, realizzò per la Cia azioni di spionaggio e controllo nei confronti dei politici italiani, democristiani in primo luogo. Poi fu trasferito a Frosinone, indi arrivò a Milano come capo della Criminalpol. Nel 1971 presentò ufficialmente le dimissioni, anche se di fatto rientrò negli Affari Riservati. Nel 1973 fu coinvolto nell’inchiesta delle intercettazioni telefoniche insieme a Tom Ponzi, fu arrestato e restò per mesi in carcere. Venne arrestato di nuovo nel 1976 e nel 1978, coinvolto in traffici e riciclaggio di denaro dei sequestri.
8. Laureato in sequestri: Sardegna, Brescia, Milano, ancora Brescia
Francesco Delfino sui sequestri di persona la sa davvero lunga. Non soltanto per la sua tesi di laurea. Ma per averli incontrati sul campo, prima in Sardegna nel 1970, poi a Brescia dal 1974, indi a Milano nel 1977, infine ancora a Brescia, nel 1998.
Esperto in sequestri. Oggi, dopo ciò che è emerso sull’estorsione ai Soffiantini, qualcuno dentro l’Arma rivanga brutte dicerie e vecchi sospetti nati attorno alla gestione dei sequestri Lucchini, Gnutti, Pinti, avvenuti a Brescia negli anni Settanta: un furgone con 7 miliardi portato in Toscana, che la leggenda dice essere stato guidato da Delfino in persona; una Mercedes color aragosta regalata in seguito all’ufficiale. Forse solo maldicenze, che oggi però tornano in circolo a causa delle difficoltà in cui si trova Delfino.
Più solide invece le accuse sulla gestione dei sequestri a Milano, alla fine degli anni Settanta: una storia che era costata al generale un avviso di garanzia, ma che era poi stata archiviata dal giudice nel novembre 1994. Con una formula, però, che lascia aperti i dubbi e che oggi ripropone tutte le domande lasciate senza risposta allora.
Il via all’indagine lo aveva dato Saverio Morabito, ieri killer spietato della ’Ndrangheta al Nord, oggi collaboratore di giustizia considerato di «attendibilità pressocché assoluta». È lo stesso personaggio che ricorda i bei tempi in cui suo padre andava a trovare il giovane tenente Delfino a Luino prima di passare il confine svizzero carico di materiale di contrabbando.
«Delfino ha raccolto le mie confidenze tanti anni fa», racconta Morabito, «e alla fine ha mostrato un piccolo registratore che aveva in una cartella e mi ha detto: vedi, io avrei potuto registrare tutto, ma non ho registrato niente. Se parlerai ai magistrati, raccontagli quello che vuoi, ma non firmare niente». Poi il generale, sibillino, aggiunge: «Ti prometto che ti farò avere gli arresti domiciliari». Morabito capisce, e tace. Solo tre anni dopo si decide a parlare con il sostituto procuratore di Milano Alberto Nobili: svelando i giochi pericolosi di Delfino, il suo slalom infinito tra guardie e ladri.
Dopo Morabito, molti altri calabresi decidono di parlare. Erano anni difficili. Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica era calamitata dalle azioni eversive dei gruppi di estrema sinistra, la criminalità organizzata accumulava ricchezze e potere. A Milano e in Lombardia tra il 1976 e il ’77 l’allarme sequestri aveva raggiunto il massimo grado. Delfino, allora capitano, era attivissimo. Nel ’76 riesce a penetrare nel covo dov’è tenuto prigioniero Carlo Alberghini pronunciando addirittura la parola d’ordine dei rapitori. Nel ’77 libera Erminio Rimoldi e arresta una trentina di persone. Come riesce a ottenere questi fulminei successi? «Avevo sei confidenti negli ambienti dei calabresi di Corsico e di Buccinasco», risponde Delfino. «Tra di noi c’è un infiltrato», si allarmano i calabresi.
Delfino inizia a pedinare e intercettare boss e soldati delle famiglie Sergi e Papalia. Sono i compaesani di Platì e San Luca trapiantati a Corsico e Buccinasco, nell’hinterland milanese. I controlli iniziano esattamente un mese prima che venga messa a segno una tripletta di sequestri in dieci giorni. Ma, stranamente, i rapimenti non sono evitati. Anzi, proprio nei giorni in cui avvengono i primi due (l’8 e il 16 maggio 1977) i servizi di pedinamento sono sospesi. Come mai?
Delfino ha un suo uomo detro il gruppo che li organizza: è Antonio Nirta detto «Due Nasi», il nome che in Calabria si dà al fucile a canne mozze. Ma il capitano interviene solo a cose fatte: mette a segno «brillanti operazioni» che gli valgono encomi, fama e avanzamento di carriera. Più 300 milioni (una somma enorme, per quegli anni), che dice di dividere tra i suoi sei fantomatici confidenti. Racconta Mario Inzaghi, il killer della banda: «Come poi abbiamo potuto capire tutti chiaramente, siamo stati lasciati eseguire il sequestro Galli e soprattutto il sequestro Scalari».
Oggi Nirta è in carcere. Non lo chiamano più «Due Nasi», ma «L’Esaurito». Fa il pazzo, cammina avanti e indietro nella gabbia degli imputati durante i processi, pronuncia discorsi complicati senza capo né coda. Conosce molti dei segreti di Delfino, ma non sembra volerli raccontare. Il generale, del resto, ha dichiarato di non conoscere nessuno della famiglia Nirta. «In questo modo», commenta Morabito, gli ha mandato a dire: stattene tranquillo che io non ti tradirò».
Nella villa di Delfino a Meina, vicino a Novara, un grande muro e un pesante cancello custodivano i suoi segreti. Tra il giardino e la ferrovia ci sono addirittura vetri antiproiettile. Tempo fa Morabito ha confessato a Nobili: «Guardi, dottore, i Sergi, i Papalia ci odieranno. Ma io di loro non ho paura. Ho paura solo del generale Delfino». Ora il generale che ha attraversato in silenzio tutti i luoghi oscuri della storia recente del Paese è un condannato definitivo. L’Italia ha un motivo in più per fare chiarezza sul suo passato.
(di Gianni Barbacetto, societacivile.it, aggiornamento 25 gennaio 2001)