CULTURE

La Scala e i sauditi. Davvero i soldi per la cultura non hanno odore?

La Scala e i sauditi. Davvero i soldi per la cultura non hanno odore?

Il gran rifiuto della Scala continua a scatenare polemiche. I fatti: lunedì 18 marzo il consiglio d’amministrazione del teatro ha rifiutato 15 milioni di euro che il principe saudita Badr bin Abd Allah aveva offerto alla Scala, chiedendo in cambio un posto nel cda; e ha deliberato di restituire al mittente anche la cifra che era già stata pagata, 3,1 milioni. Le polemiche che sono seguite sono di due tipi.

Il primo è strettamente politico, Pd contro Lega, e fa parte della dialettica tra partiti e della propaganda nei confronti dei cittadini elettori. Il culmine è stato raggiunto con lo scontro tra il consigliere e deputato leghista Alessandro Morelli e il sindaco Giuseppe Sala. A proposito dei soldi sauditi, Morelli ha accusato Sala su Facebook di “avere le mani nella marmellata”. Il sindaco, nonché presidente del cda della Scala, gli ha risposto con una querela: “Tutto deve avere un limite. Morelli utilizza i social network per manipolare l’opinione pubblica e attaccare maldestramente raccontando bugie. Ora basta”.

Il secondo livello di polemica è invece più profondo e pone domande sulla cultura e la civiltà (e finanche le buone maniere) a cui vale la pena di cercare risposte. I favorevoli all’arrivo dei soldi sauditi sostengono che si è persa una grande occasione, perché quei denari avrebbero fatto bene alla Scala e non si è mai visto un teatro o un ente culturale rifiutare le donazioni di un mecenate: curioso che con l’Arabia Saudita si possano concludere affari e commercio di armi, ma, ipocritamente, non si possa accettare una sponsorizzazione o fare scambi culturali.

L’ipocrisia c’è: è vero – con Ryad e più in generale con Paesi ritenuti poco rispettosi dei diritti umani, Cina compresa – che pecunia non olet quando si tratta di fare grandi affari e perfino di vendere sistemi d’arma, mentre questa volta i soldi dei sauditi sono stati ben annusati e subito rifiutati. Ma è bene non dimenticare le strane anomalie di questa vicenda. La prima è che in nessun Paese al mondo può accadere che il responsabile pro tempore di un’istituzione culturale – in questo caso il sovrintendente Alexander Pereira – stringa accordi internazionali e prometta un posto in cda prima di una decisione del consiglio d’amministrazione e senza avvertire in modo chiaro e distinto i soci: lo Stato, la Regione, il Comune, gli altri “fondatori”.

In nessun Paese al mondo può accadere che un principe che si è anche autonominato ministro della Cultura estragga dalle sue tasche 3 milioni di euro e li mandi brevi manu a Pereira tramite un notaio milanese, prima che la Scala abbia deciso che cosa fare. È vero che compito della cultura è quello di saltare muri, abbattere barriere e aprire il dialogo con tutti. Ben venga la moltiplicazione delle recite della Scala in Arabia Saudita, Paese dove era proibita la musica.

Ma in questo caso è accaduto che un Paese, in difficoltà d’immagine davanti al mondo per il caso di Jamal Khashoggi, giornalista dissidente fatto sparire e ucciso in una sede diplomatica saudita, abbia cercato di fare il maquillage alla propria reputazione usando il marchio della Scala, il teatro d’opera più noto al mondo. “Anche sul prezzo c’è poi da ridire”, come direbbe Fabrizio D’André: il principe Badr bin Abd Allah ha offerto 15 milioni in cinque anni chiedendo un posto in cda (3 milioni all’anno, quando la Fondazione Cariplo ne versa 10), mentre la Francia ha chiuso un’operazione da 1 miliardo di euro con gli Emirati Arabi per portare il Louvre ad Abu Dhabi, ma lo ha fatto con incontri e accordi di vertice tra i due Stati e senza vendere alcun posto dei cda di Parigi. Insomma. A difendere Pereira è restato solo Sala. Ma la Scala, il Louvre della lirica, si merita più collegialità e più discernimento.

Il Fatto quotidiano, 21 marzo 2019
To Top