CORONAVIRUS

Crisanti: “La zona rossa poteva salvare da 2 a 4 mila persone in Valseriana”

Crisanti: “La zona rossa poteva salvare da 2 a 4 mila persone in Valseriana” dav

Gianni Barbacetto e Alessandro Mantovani /

“Quando fu scoperto il primo contagiato, domenica 23 febbraio 2020, all’ospedale di Alzano c’erano già 100 persone affette da Covid 19”, dice Andrea Crisanti. Il microbiologo, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova, ha depositato ieri la sua perizia alla Procura di Bergamo. Ora il procuratore Antonio Chiappani aspetta l’informativa finale della Guardia di finanza, poi chiuderà l’indagine avviata sulla gestione della prima ondata di Covid 19 nell’area che ha avuto più morti al mondo. La Wuhan dell’Europa è qui, tra la città di Bergamo e la Valseriana, dove i morti furono 6 mila, su una popolazione di 1 milione di abitanti.

Crisanti conferma l’ipotesi già da tempo segnalata anche dal Fatto, secondo cui l’infezione ad Alzano aveva cominciato a diffondersi almeno dall’11 febbraio 2020. Nella sua relazione – un centinaio di pagine, ottomila pagine di allegati, un anno e mezzo di lavoro – ha risposto a quattro dei cinque quesiti posti dalla Procura: su come è stata gestita la pandemia dentro l’ospedale di Alzano Lombardo; su come il virus si è diffuso dall’ospedale alla Valseriana; sulla necessità di istituire una zona rossa nell’area di Alzano e Nembro; su come è stato applicato in zona il piano pandemico nazionale. Non ha ritenuto di rispondere al quinto quesito, se i pazienti siano stati trattati in modo adeguato nell’ospedale di Alzano (“È un quesito che va al di là delle mie conoscenze”).

Quel 23 febbraio di due anni fa non era dunque il giorno zero del contagio, conferma oggi Crisanti. Il virus era già in circolazione da giorni. Ci sono stati ritardi nella chiusura dell’area, non dichiarata zona rossa: secondo le stime di Crisanti, si sarebbero potute evitare da 2 mila a 4 mila vittime, se la zona rossa fosse stata dichiarata tempestivamente. Sono stati commessi degli errori anche nell’applicazione del piano pandemico. “Ma io ho ricostruito gli eventi e individuato le criticità”, spiega Crisanti. “Non indico delle responsabilità: quelle le dovrà decidere la Procura. Spero che la mia relazione possa aiutare chi indaga, so che il procuratore vuole dare alle famiglie la verità su quello che è successo”.

Non è stato soltanto un freddo lavoro scientifico: “Devo ammettere che è stato toccante anche dal punto di vista personale lavorare con il pensiero di migliaia di morti per il virus e di tante storie personali legate a questo disastro. Questo incarico mi ha emotivamente provato”. Conclude: “Indipendentemente dalle eventuali responsabilità penali o civili, ho cercato di produrre un documento che possa far capire che cosa è successo, per restituire agli italiani la storia di quei mesi”.

Alzano Lombardo fu la pietra dello scandalo: l’ospedale locale, quella domenica 23 febbraio, fu chiuso per poche ore e poi subito riaperto, dopo una sanificazione sommaria, per ordine delle autorità sanitarie regionali e dei vertici dell’assessorato alla Salute della Regione Lombardia. Il 2 marzo 2020 l’Istituto superiore di sanità propose di isolare la zona di Alzano e Nembro; per tre giorni, dal 2 al 5 marzo, duecento poliziotti e carabinieri erano pronti a chiudere la “zona rossa”. La Regione, che avrebbe potuto decretarla subito, aspettò le decisioni del governo; il governo decise domenica 8 marzo e chiuse non il focolaio di Alzano e Nembro, ma l’intera Lombardia, dichiarata “zona arancione”. Il giorno dopo fu lockdown in tutta Italia.

La Procura di Bergamo indaga con l’ipotesi di reato di epidemia colposa e omicidio colposo. Indagati, finora, sono l’ex direttore generale della Sanità lombarda Luigi Cajazzo; l’allora vice di Cajazzo, Marco Salmoiraghi; una dirigente dell’assessorato, Aida Andreassi; e i vertici della Asst Bergamo Est: l’ex direttore generale Francesco Locati e il direttore sanitario Roberto Cosentina.

 

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