AMARO QUIRINALE

L’ombra del golpe. Antonio Segni e il Piano Solo / il podcast

L’ombra del golpe. Antonio Segni e il Piano Solo / il podcast

Amaro Quirinale. Alla vigilia dell’elezione del tredicesimo presidente della Repubblica, Il Fatto ripercorre le storie dei più discussi tra gli inquilini del Colle, protagonisti di scontri con la magistratura e scandali politici. Quattro presidenti che hanno scelto le dimissioni per non spaccare il Paese, raccontati da quattro giornalisti: Gianni Barbacetto firma il ritratto di Antonio Segni; Fabrizio d’Esposito svela i retroscena su Giorgio Napolitano; Antonio Padellaro torna su Giovanni Leone; Antonella Beccaria riavvolge il nastro su Francesco Cossiga.

IL PODCAST: SEGNI, IL PIANO SOLO E L’OMBRA DEL GOLPE
di Gianni Barbacetto

Era l’Italia del boom economico, l’Italia che usciva dai tempi duri del dopoguerra, quella che nel 1962 elesse Antonio Segni quarto presidente della Repubblica. Dopo gli anni della ricostruzione seguiti alla guerra e al fascismo, l’Italia conosce un periodo di forte sviluppo industriale, soprattutto nel triangolo Milano-Torino-Genova, che produce forti spostamenti di manodopera dal sud verso il nord e porta una crescita del benessere degli italiani, che cominciano a portare in casa gli elettrodomestici prodotti dalle fabbriche del nord, il frigorifero, poi il televisore. E infine puntano all’automobile, la 500, la 600, prodotte dalla Fiat a Torino. È l’Italia di Carosello, della tv in bianco e nero.

In questa Italia, il 6 maggio 1962, Antonio Segni viene eletto presidente. Una parte della politica italiana puntava alla riconferma del suo predecessore, Giovanni Gronchi. Ma fu Aldo Moro, leader di quella parte della Democrazia cristiana che guardava a sinistra e che puntava all’apertura al Partito socialista, a imporre alla Dc la candidatura di Segni, conservatore, democristiano di destra. Perché? Perché così Moro sperava di riuscire a coinvolgere tutta la Dc, anche le sue correnti di destra, in una politica di allargamento del governo al Psi.

Fu l’unica volta che un candidato ufficiale della Dc alla presidenza della Repubblica uscì vittorioso dalla votazione del Parlamento: Segni fu eletto al nono scrutinio, con 443 voti su 842, 51 schede bianche e i voti favorevoli della destra, del Movimento sociale italiano e del Partito monarchico. A Palazzo Chigi c’era Amintore Fanfani, anch’egli democristiano, che era al governo con il Partito socialdemocratico e con quello repubblicano e con l’appoggio esterno del Psi, i socialisti di Pietro Nenni.

Segni era nato e cresciuto in Sardegna, dentro una Democrazia cristiana di destra e fieramente anticomunista. Fu tra i fondatori della Dc, nel 1942. Nel 1946 fu eletto deputato dell’Assemblea costituente che scrisse la Costituzione repubblicana. Poi fu molte volte sottosegretario e ministro. Ha il record di permanenza al governo, tra tutti i presidenti della Repubblica, sia prima sia dopo di lui. In compenso ha anche il record della più breve permanenza al Quirinale (escluso Enrico De Nicola): Segni fu presidente della Repubblica solo per due anni e mezzo.

Era ministro dell’Agricoltura quando venne varata la riforma forse più significativa del dopoguerra, la riforma agraria, realizzata con i soldi americani del Piano Marshall, che espropriò le terre ai grandi latifondisti e le distribuì ai braccianti agricoli. Fu due volte presidente del Consiglio. Tra il 1955 e il 1957 fu a capo di un lungo governo centrista Dc-Partito socialdemocratico-Partito liberale. Tra il 1959 e il 1960 guidò un monocolore Dc che aveva l’appoggio esterno di liberali, monarchici e missini, che cadde perché le destre ritirarono la fiducia proprio a causa delle politiche di Aldo Moro, segretario della Dc, che lavorava per l’apertura a sinistra.

Conservatore e anticomunista. L’anticomunismo di Segni è testimoniato da un altro democristiano sardo, Francesco Cossiga, che in un’intervista ha raccontato: “Alla vigilia delle elezioni del 1948 ero armato fino ai denti. Mi armò Antonio Segni. Non ero solo, eravamo un gruppo di democristiani riforniti di bombe a mano dai carabinieri. La notte del 18 aprile (quella delle elezioni) la passai nella sede del comitato provinciale della Dc di Sassari… Prefettura, poste, telefoni, acquedotto, gas non dovevano cadere, in caso di golpe rosso, nelle mani dei comunisti”.

L’ossessione anticomunista di Segni resta intatta anche negli anni in cui abita al Quirinale. Sono gli anni in cui nasce il primo centro-sinistra, con l’ingresso dei socialisti nell’area di governo. Gli anni in cui le destre politiche (parte della Dc, l’Msi, i monarchici, i nostalgici del fascismo) e le destre economiche (Confindustria, Confagricoltura) vogliono sbarrare la strada all’ingresso del Psi al governo e vogliono impedire le riforme più coraggiose del centro-sinistra. Ad ogni costo.

Segni era ossessionato dall’espansionismo sovietico e da un possibile colpo di Stato comunista – uno scenario che negli anni Sessanta era ormai diventato del tutto irrealistico e fantasioso. Ma lui considerava il centro-sinistra un cedimento, lo smottamento che poteva provocare la valanga del collettivismo in Italia, l’anticamera della conquista del potere da parte dei comunisti.

Lo testimonia anche l’ex ministro dell’Interno, il democristiano Paolo Emilio Taviani. Che ha scritto: “Segni mi chiese – al nostro primo incontro – che cosa avessimo previsto in caso d’insurrezione armata comunista. Gli risposi che – dopo la sconfitta interna della corrente di Pietro Secchia nel Pci – non avevamo preoccupazioni di quel genere. ‘Andando avanti di questo passo’, mi rispose secco, ‘tra un anno sarò costretto a dare il mandato per il governo agli stalinisti’”.

Così gli anni della presidenza Segni furono anni di tensioni durissime con il blocco politico formato dalla Dc di sinistra di Aldo Moro, dai repubblicani di Ugo La Malfa, dai socialisti di Pietro Nenni. Questi spingevano per riforme strutturali, economiche e sociali, che adeguassero la politica all’Italia del boom, del miracolo economico. Segni restava invece un conservatore, preoccupato per la svolta a sinistra dell’Italia, contro cui combatteva. In politica, e perfino nella religione: tanto che, prima che i cardinali della Chiesa cattolica si chiudessero in conclave in Vaticano per eleggere il nuovo papa dopo la morte di Giovanni XXIII, fa loro arrivare la sua netta contrarietà all’elezione al soglio pontificio del cardinale arcivescovo di Milano, Giovan Battista Montini, che nel 1963 viene eletto comunque e diviene papa Paolo VI.

Quello stesso anno, nel dicembre del 1963, Moro vara il primo governo organico di centro-sinistra, con la diretta partecipazione del Partito socialista italiano. Scattano le reazioni delle destre italiane, impegnate a fare barriera contro la sinistra e il comunismo. Scatta quello che è stato chiamato “Piano Solo”, messo a punto dal generale Giovanni De Lorenzo. Chi era De Lorenzo? Prima direttore del Sifar, il servizio segreto militare; e poi comandante generale dell’Arma dei carabinieri. De Lorenzo, militare molto vicino a Segni, da direttore del Sifar aveva firmato con gli americani della Cia il protocollo che nel 1956 fa nascere in Italia Gladio, la pianificazione anticomunista Stay Behind.

Il 25 marzo 1964, su indicazione del presidente Segni, il generale De Lorenzo riunisce i comandanti delle tre divisioni dei carabinieri di Milano, Roma e Napoli, e propone un piano che deve scattare in caso di emergenza politica nazionale. Se i comunisti si fossero avvicinati troppo all’area del potere, minacciando la democrazia occidentale, sarebbero intervenuti i soli carabinieri (ecco il nome: Piano Solo) che avrebbero occupato le sedi della Rai, dei giornali, dei partiti di sinistra (Pci, Psi, Psiup), delle redazioni dei quotidiani L’Unità e Avanti!, della Cgil, il sindacato legato a Pci e Psi. In caso di emergenza, sarebbero state arrestate 732 persone – politici, sindacalisti, militanti soprattutto del Pci – dette “enucleandi”. Gli “enucleandi” sarebbero stati portati e rinchiusi nella base militare di capo Marrargiu, in Sardegna, che era la base segreta di Gladio.

10 maggio 1964: De Lorenzo presenta il Piano Solo al presidente Segni.
2 giugno, festa della Repubblica: durante la tradizionale parata militare a Roma – raccontano le cronache – Segni si commuove e piange quando vede sfilare la modernissima brigata meccanizzata dei carabinieri, voluta da De Lorenzo.
25 giugno: il governo Moro viene messo in minoranza sul bilancio della Pubblica istruzione e sul finanziamento alle scuole private. Moro sale al Quirinale da Segni e gli consegna le sue dimissioni.
3 luglio: sono in corso le consultazioni per il nuovo governo. Moro tenta di varare un nuovo esecutivo di centro-sinistra. Segni incontra Nenni, capo del Partito socialista, e fa pressioni affinché non entri nel nuovo governo. Gli dice che comunque sia, non deve passare la riforma sul regime dei suoli, la legge urbanistica Sullo-Lombardi, che ritiene un colpo alla proprietà privata. “Se passa”, dice Segni a Nenni, “la rinvio alle Camere”.
14 luglio: Segni convoca al Quirinale il capo di stato maggiore della Difesa, generale Aldo Rossi.
16 luglio: Segni convoca al Quirinale il comandante dei carabinieri, De Lorenzo. Subito dopo, avviene una strana riunione a casa del democristiano Tommaso Morlino, a cui partecipa lo stato maggiore della Dc, il generale De Lorenzo e il capo della polizia Angelo Vicari. Obiettivo: convincere i capi democristiani a far ritirare Moro.

Le pressioni, politiche e militari, ben oltre i limiti della Costituzione, sono evidenti. Segni usa direttamente i carabinieri, che non dipendono dal presidente della Repubblica; e li manda a dire ai capi democristiani che non vuole Moro, ma un “governo del presidente”, guidato da un democristiano di destra o dalla seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Cesare Merzagora.

Ma Moro resiste e va avanti. Il 17 luglio sale al Quirinale e comunica a Segni di avere pronto il suo nuovo governo, di centro-sinistra, con dentro anche i socialisti. Intanto però Nenni ha sentito bene, forte e chiaro, il “tintinnar di sciabole” – così verrà chiamata l’aria di golpe minacciato per raffreddare, frenare, gelare le pretese riformiste del centro-sinistra. Nenni accetta di ridimensionare i progetti riformatori. Cade la legge sul regime dei suoli. Sono svuotate le riforme più significative come quella della programmazione economica. Il centrosinistra è svuotato dall’interno e perde ogni forza propulsiva. L’obiettivo delle destre è raggiunto, anche senza far scattare il Piano Solo, che diventa così il primo dei progetti golpisti che si succederanno in Italia, poi negli anni Settanta, minacciati ma non realizzati, secondo quello che diventerà il programma della strategia della tensione: “Destabilizzare per stabilizzare”.

Fu un tentato golpe? Di certo molti dirigenti del Pci e della Cgil dormirono, in quelle notti, fuori di casa. Lo storico Miguel Gotor lo definisce “intentona”: “In base alla documentazione nota, il capo dello Stato non avallò mai un golpe, ma alimentò il progetto di una intentona, ossia di una minaccia di svolta autoritaria, con l’obiettivo di esercitare una pressione in grado di condizionare gli equilibri politici, frenando il centro-sinistra con le buone o con le cattive”. Del resto, l’alleato americano, cioè l’amministrazione guidata dal presidente John Kennedy, era favorevole al centro-sinistra in Italia. Non così però gli ambienti repubblicani Usa e i loro referenti in Italia.

Il democristiano Mario Scelba, più volte ministro dell’Interno, raccontò di essere stato anche lui convocato da Segni, nel giugno 1964, che lo informò della sua volontà di bloccare il centro-sinistra e il governo Moro e di voler costituire un “governo del presidente”, magari presieduto dallo stesso Scelba o da un altro democristiano di destra, Giuseppe Pella. Scelba chiese a Segni “se avesse un programma per dominare le dimostrazioni che un governo presidenziale avrebbe sicuramente provocato, Segni rispose di non aver elaborato alcun programma ma che contava sui carabinieri”. Continua Scelba: “Domandai poi a Segni se aveva parlato dei suoi progetti con il ministro dell’Interno, on. Taviani, da cui dipendeva la polizia. Segni reagì subito dicendo: ‘Non parlarmi di Taviani che è un comunista e quindi non posso fidarmi della polizia’”.

Aldo Moro, nel suo Memoriale dal carcere delle Br, definisce con chiarezza ciò che successe nell’estate del 1964: “Il tentativo di colpo di Stato finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza politica, rivolta a bloccare o almeno fortemente dimensionare la politica di centrosinistra, ai primi momenti del suo svolgimento. Questo obiettivo era perseguito dal presidente della Repubblica on. Segni. L’apprestamento militare, caduto l’obiettivo politico che era quello perseguito, fu disdetto dallo stesso capo dello Stato”.

Il 7 agosto 1964 avviene un imprevisto che determina la fine della presidenza Segni. Il presidente della Repubblica è a colloquio con il presidente del Consiglio Aldo Moro e con il capo del partito socialdemocratico Giuseppe Saragat. Il colloquio è teso, concitato, drammatico. A un certo punto Segni comincia a parlare con difficoltà, “come se avesse una caramella in bocca”, racconterà Moro. “Quando ci siamo alzati abbiamo visto che barcollava e ho pensato che fosse per il caldo”. Invece è una trombosi cerebrale.

Per Segni viene dichiarato l’“impedimento temporaneo”, con atto firmato dai presidenti delle due Camere e dal presidente del Consiglio. Il 10 agosto il presidente del Senato Merzagora assume le funzioni ordinarie di supplente. Fino al 6 dicembre 1964: arrivano le dimissioni volontarie, firmate da un Segni ormai incapace di muoversi. Finisce così la breve e turbolenta presidenza che apre la strada alla strategia della tensione.

FqExtra, ilfattoquotidiano.it, dicembre 2021
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