PERSONE

Don Colmegna: “Vi racconto Don Malgesini, che non era uno sprovveduto buonista”

Don Colmegna: “Vi racconto Don Malgesini, che non era uno sprovveduto buonista”

È stato ucciso da uno di quelli a cui portava aiuto. Don Roberto Malgesini, “prete degli ultimi”, è stato accoltellato a morte ieri, 15 settembre 2020, a Como da un senzatetto di origini tunisine con problemi psichici. Lo ricorda con affetto don Virginio Colmegna, il fondatore della Casa della carità di Milano.

Come ha conosciuto don Malgesini?

Don Roberto, prete della diocesi di Como, una quindicina d’anni fa aveva chiesto al suo vescovo di poter lavorare in situazioni di marginalità. E il suo vescovo lo aveva mandato qui da noi, alla Casa della Carità. È stato con noi un annetto. Lavorava alle docce: da noi arriva una massa di persone senza casa a cui diamo la possibilità di lavarsi. Poi è tornato a Como. Ho capito che era una persona che aveva scelto questo impegno per un suo desiderio che ha a che fare con il Vangelo e con il suo modo di essere prete. Ora che è stato ucciso, il vescovo di Como ha detto che don Roberto è “un santo della porta accanto”, della normalità, della quotidianità. Le indagini ci daranno come è successo, ma la sua è un’esperienza forte, non soltanto per dare un servizio d’assistenza, ma per tentare di ricostruire un mondo con una speranza di fraternità e umanità.

Che tipo d’uomo era? Come lo ricorda?

Era un prete con un gran desiderio – lo dico senza poesia, ma con concretezza – di vivere il Vangelo stando con quelli che oggi Papa Francesco chiama gli ultimi, i resti. Con una dimensione che è anche sociale, ma con una tensione che nasce dal Vangelo. Noi della Casa della Carità voluta dall’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini abbiamo visto in lui lo stesso desiderio di vivere la gratuità, ma con sapienza e intelligenza. Non era un prete sprovveduto che faceva il “buonista”, era uno che ha fatto una scelta comprendendo la complessità della situazione in cui operava. Lui non si definiva “prete di strada”, viveva la vicinanza con gli ultimi. Lui lavorava “sulla strada”. Il suo è un martirio, nel Vangelo e per il Vangelo. Oggi il rischio è realizzare tante cose, tanto fare, ma smarrendo quella freschezza a cui ci richiama Papa Francesco, il senso di un fare che ha una tensione sociale e anche, se vogliamo, politica, ma che deve nascere da una passione, da una tensione, da una scelta evangelica, una testimonianza di fraternità che nasce dal Vangelo.

È morto ucciso da una persona che voleva aiutare.

Sì, la sua morte ci interroga su un problema su cui da tempo abbiamo cominciato a riflettere.

Come aiutare persone con disagi psichici che possono anche diventare violenti?

Sì. Come intervenire su immigrati, senza permesso di soggiorno, che vengono abbandonati senza cure e che hanno anche disagi psichici. Noi in Casa della Carità, accanto agli educatori e ai volontari, abbiamo a tempo pieno anche tre specialisti che io chiamo “psichiatri senza camice”, che operano con competenze, che conoscono l’uso dei farmaci, perché ci sono persone, che siano immigrati o italiani, che vivono in strada, senza cure e senza farmaci, che ci hanno spinto a sperimentare percorsi come il “Progetto Diogene”: i volontari escono la sera nei quartieri, non solo per dare da mangiare, che è cosa importante, ma per cercare di incontrare persone che soffrono psicologicamente ed entrare in relazione con loro. Invece di offrire servizi che “attendono” le persone, dobbiamo dare servizi che “vanno incontro” alle persone.

Don Malgesini non è il primo prete ucciso in Italia.

No, mi è tornato alla memoria oggi don Isidoro Meschi, diventato prete con me a Milano nel 1969, che è stato ucciso negli anni Settanta anch’egli da persone che cercava di aiutare.

Don Malgesini era stato multato in passato dai vigili urbani di Como per aver dato la colazione ai senzatetto che si trovavano sotto il portico dell’ex chiesa di San Francesco, che la Lega vorrebbe chiudere con una grata. La mozione sarà discussa in questi giorni in consiglio comunale.

La nostra dolcezza è quella di non smettere mai di aiutare le persone in quanto persone. Qualsiasi intervento di esclusione deve incontrare pacificamente il fatto che ci sarà sempre della gente che non smetterà mai di aiutare le persone, anche per riconoscere loro dei diritti. L’allarme sociale è legittimo, ma abbandonare le persone non migliora le cose, aumenta anzi i pericoli e moltiplica l’insicurezza dei cittadini.

Il Fatto quotidiano, 16 settembre 2020
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