CORONAVIRUS

Ritorno in Valseriana. Non è andato tutto bene. E ora ci sono 100 medici in meno

Ritorno in Valseriana. Non è andato tutto bene. E ora ci sono 100 medici in meno

No, non è andato tutto bene, qui. Ad Alzano Lombardo, a Nembro, ad Albino, a Bergamo. Trecentomila contagiati, fino al 50 per cento di positivi, 6 mila morti: la Valseriana e la provincia di Bergamo sono l’area più colpita d’Europa dal Covid-19. E ora? Passati i mesi più neri, come ci si prepara alla ripresa delle attività dopo l’estate? “Qui l’impatto del virus è stato tremendo”, ricorda il dottor Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo. “Basta confrontare i nostri morti, 6 mila in tre mesi, con le vittime civili dei bombardamenti su Milano nella seconda guerra mondiale: 2 mila; o con i morti alleati durante lo sbarco in Normandia: 2.500”.

C’è stata una strage, qui. Lo sanno bene gli uomini e le donne che hanno perso il padre, la madre, il nonno, il fratello, il marito, la moglie, un amico e hanno dato vita all’associazione “Noi denunceremo”, che ha raccolto già 65 mila persone. “Non ci interessa accusare e condannare: lo farà la magistratura al termine delle sue inchieste”, dice il presidente Luca Fusco, commercialista con studio a Brusaporto, che ha perso il padre. “Noi vogliamo dare voce alle migliaia di persone che sono state colpite e che vogliono raccontare le loro storie”.

La pagina Facebook “Noi denunceremo” è uno straordinario, incredibile album dei ricordi dove si incrociano affetti e abbracci, fotografie di chi non c’è più e condivisione terapeutica del dolore, lacrime private e denuncia civile. “Avessero chiuso subito Alzano e Nembro, forse non avremmo dovuto chiudere tutta l’Italia”, dice l’avvocato di “Noi denunceremo”, Consuelo Locati.

Ma abbiamo imparato qualcosa, da quei tre mesi tremendi che vanno dal 23 febbraio 2020 alla fine di maggio? Siamo pronti a un’eventuale seconda ondata di contagi? Come ci stiamo preparando a convivere con il virus? Sono queste le domande che rimbalzano tra l’ospedale di Alzano Lombardo e il Papa Giovanni di Bergamo, tra gli studi dei medici di base e le fabbriche, le scuole, le chiese, gli oratori della Valseriana.

Per capire che cosa è successo e che cosa potrà succedere bisogna venire qui, mettersi pazientemente in macchina e percorrere – in coda, nel traffico – la decina di chilometri che separa Bergamo e l’aeroporto di Orio al Serio dai paesoni di Alzano, Nembro, Albino. No, la bassa Valseriana non è una valle verde, è un fitto conglomerato urbano dove le case si fanno spazio tra i capannoni industriali e gli edifici commerciali, dove si lavora sodo, si produce e si tengono contatti quotidiani con la Cina, la Germania, il resto del mondo.

È un fortino inespugnabile l’ospedale di Alzano Lombardo, dove il contagio si diffuse a partire da quella maledetta domenica 23 febbraio, quando fu chiuso per poche ore ma poi subito riaperto. Non vogliono parlare con l’inviato del Fatto quotidiano le autorità sanitarie e i vertici della Asst Bergamo Est (“Dopo le cose che avete scritto su di noi…”). Chi esce dai cancelli – parenti dei ricoverati, uomini e donne che hanno appena fatto un esame clinico o una visita specialistica – garantiscono che i controlli ora ci sono, si accede solo per appuntamento, la temperatura viene subito misurata, tutti indossano mascherine e protezioni.

Quale modello organizzativo abbiano messo in campo per non ripetere gli errori di febbraio, però, non si sa. Bocche cucite e muro di gomma. Si sa soltanto che il direttore sanitario della Asst Bergamo Est da cui l’ospedale dipende, Roberto Cosentina, se n’è andato in pensione, sostituito dal dottor Gabriele Perotti, che è stato direttore sanitario a Lodi, dopo essere stato direttore medico al San Carlo di Milano. Nuovo direttore di Chirurgia è stato nominato Pierpaolo Mariani, che il coronavirus l’ha provato, tra i primi contagiati, a febbraio, dentro il suo ospedale.

L’ospedale di Alzano, dove il virus si diffuse a febbraio 2020

Non si chiudono a riccio invece al Papa Giovanni di Bergamo, che nei mesi neri della pandemia ha avuto 4 mila persone accorse al pronto soccorso, 2.200 ricoverati positivi al virus, 400 morti. “Abbiamo subito diviso l’ospedale in tre aree, quella per i pazienti negativi al virus, quella per i positivi e quella grigia per chi era in attesa del risultato del tampone”, racconta il dottor Stefano Fagioli, direttore del dipartimento di Medicina. “Abbiamo rivoluzionato la struttura dell’ospedale e preparato via via otto unità Covid, ciascuna con 48 posti letto, più 100 posti in terapia intensiva”.

Ora la pressione si è allentata. “Siamo fiduciosi che non si ripeta l’ondata dei mesi neri. Ma ci prepariamo come se dovesse succedere. Abbiamo un meccanismo definito e collaudato. Ora riusciamo a fare mille tamponi al giorno, di cui cento rapidi, con risultato in 45 minuti”.

L’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo

Meno ottimista il dottor Marinoni. “Siamo come eravamo al gennaio scorso. Il virus non è cambiato, né è diventato più buono. L’età dei contagiati si è abbassata, ma solo perché ora facciamo più tamponi anche ai giovani. Il virus sta circolando meno, questo è vero, perché stiamo più attenti e protetti. Ma che cosa succederà quando arriverà l’influenza stagionale e non riusciremo a distinguerne i sintomi da quelli del Covid? Dobbiamo moltiplicare i tamponi”.

La lettera che l’Ordine dei medici di Bergamo ha mandato alla Regione Lombardia il 6 aprile 2020 resta un atto d’accusa pesantissimo per tutti gli errori e le impreparazioni dei vertici della sanità lombarda di fronte alla pandemia. “Noi medici non avevamo neppure le mascherine, ci infettavamo e diffondevamo il contagio: sui 600 della provincia di Bergamo, 150 si sono ammalati, sei sono morti”, conta Marinoni.

E oggi? “Adesso le protezioni ci sono, gli errori commessi sono ormai chiari a tutti, sappiamo che cosa va fatto e che cosa non va fatto. Ma l’organizzazione resta debole. La sanità territoriale è stata indebolita da cattive riforme e dalla sottrazione di fondi. Vuole che le dica la verità? Qui a Bergamo oggi siamo messi peggio che prima della pandemia: eravamo 600 medici di base, nell’ultimo anno cento se ne sono andati in pensione e a fine anno saremo solo 500”.


Don Matteo Cella alla Festa dell’oratorio di Nembro

All’oratorio di Nembro è in corso la festa annuale che coinvolge centinaia di ragazzi e di adulti, trasformati per una decina di giorni in volontari che accolgono, cucinano, organizzano, servono ai tavoli. Ristorante, birreria, incontri, film, spettacoli. Un incrocio tra le feste dell’Unità dei tempi d’oro e un raduno della Lega. Don Matteo s’aggira tra gli stand sorridendo, t-shirt rossa e braghe corte da rapper.

È stato lui, a inizio marzo, a far smettere di suonare le campane a morto della chiesa: “Troppi funerali, anche quattro al giorno, le campane non smettevano mai”. Dà il cinque a un ragazzino con la maglietta dei volontari della festa, lancia una battuta a una adolescente che serve ai tavoli. “Abbiamo voluto farla anche quest’anno, la festa”, dice, “pur con tutte le precauzioni, le mascherine, il distanziamento, le prenotazioni obbligatorie. Perché dobbiamo ripartire, vogliamo rinascere. Non si deve restare chiusi in casa, soli, troppo a lungo”.

Don Matteo all’ingresso della Festa dell’oratorio di Nembro

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Il Fatto quotidiano, 13 settembre 2020
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