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L’avvocato della Nigeria: “Eni sapeva della corruzione, ecco la email che lo prova”

L’avvocato della Nigeria: “Eni sapeva della corruzione, ecco la email che lo prova” Foto Roberto Monaldo / LaPresse 17-01-2016 Roma Economia Trasmissione tv "In Mezz'Ora" Nella foto Claudio Descalzi (ad Eni) Photo Roberto Monaldo / LaPresse 17-01-2016 Rome (Italy) Tv program "In Mezz'Ora" In the photo Claudio Descalzi (ceo Eni)

Un’arringa che è risuonata nell’aula bunker di Milano come un raddoppio e un rinforzo delle accuse ai vertici di Eni e Shell (tra cui l’amministratore delegato della compagnia italiana Claudio Descalzi), sotto processo con l’accusa di aver pagato la megatangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere la concessione del campo d’esplorazione petrolifera Opl 245 in Nigeria.

A pronunciarla è l’avvocato Lucio Lucia, che rappresenta l’attuale governo nigeriano, impegnato a fare pulizia nei confronti dei governanti precedenti. Lucia ha estratto dalle carte processuali una email del febbraio 2011 che a suo dire prova che Shell ed Eni sapevano di pagare per corrompere i governanti nigeriani di allora.

“La Repubblica federale della Nigeria ha inteso costituirsi parte civile nel presente processo italiano che giudica i corruttori”, ha esordito il legale, “per questo fatto che reputa di gravissimo disvalore e di gravissimo pregiudizio per la nazione”. Nel Paese africano è stato intanto avviato un procedimento penale “a carico dei corrotti, primo fra tutti l’ex ministro della Giustizia Mohammed Adoke Bello, accusato di aver ricevuto un illecito compenso come contropartita per la concessione della licenza alle compagnie petrolifere, e così arrestato ed estradato da Dubai”.

Il pagamento di pubblici ufficiali nigeriani”, sostiene Lucia, “è stato provato: sono stati seguiti i soldi”. La cifra di 1,092 miliardi di dollari è stata pagata da Eni su un conto londinese del governo nigeriano, ma è poi stata girata sui conti della società Malabu (riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete) presso la Keystone Bank (400 milioni) e presso la First Bank of Nigeria (401 milioni). Poi il denaro è stato spostato sul conto Rocky Top (da cui escono 124 milioni per “le faraoniche spese voluttuarie di Etete, familiari e amici”) e sui conti di quattro società riferibili a Aliyu Abubakar, chiamato in patria “Mr. Corruption”, grande manovratore dei soldi versati da Eni.

Da questi conti escono due bonifici (per complessivi 11,8 milioni di dollari) al senatore nigeriano Ikechukwu Obiorah. Altri soldi vanno a due ex ministri della Giustizia, Adoke Bello (almeno 2,2 milioni più un immobile e un terreno) e al suo predecessore Bayo Ojo (10 milioni). Una massa impressionante di denaro (circa 500 milioni) viene cambiata da Abubakar in contante, in valuta straniera, presso i “bureau de change” nigeriani e se ne perdono le tracce.

In cambio di tanto denaro, i politici nigeriani concedono a Eni e Shell, nel 2011, il più grande campo petrolifero della Nigeria. Cominciano con attribuirlo alla società Malabu, riferibile al ministro Etete. Poi, quando lo passano a Eni e Shell, stipulano non l’usuale contratto Psc, con partner la compagnia petrolifera di Stato (Nnpc) che avrebbe ricevuto una percentuale del petrolio estratto; ma un contratto Opl (di prospezione e ricerca) per dieci anni e Psa (di estrazione) per vent’anni.

Condizioni più che sfavorevoli per lo Stato africano, tanto che la Nnpc e la Dpr (l’agenzia governativa per il petrolio) protestano per la formula imposta che ritengono inaccettabile. Ma “Adoke Bello la fa passare”, continua l’avvocato Lucia, “benché le clausole contrattuali siano unilateralmente predisposte da Eni e Shell, superando ogni obiezione di Nnpc e di Dpr: per favorire le compagnie internazionali, invece di fare gli interessi della Nigeria”.

Il 28 febbraio 2011, Guy Colgate (ex uomo dei servizi segreti britannici, consulente di Shell e imputato nel processo milanese) manda una email a Peter Robinson (capo della Shell in Nigeria, anch’egli imputato): “Etete ha parlato con Glj e Ag ieri a Lagos e Nnpc è risolto”. Glj è l’allora presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan; Ag è l’Attorney General, cioè il ministro della Giustizia Adoke Bello: questi comunicano ad Etete, che lo riferisce subito all’uomo della Shell, che “Nnpc is sorted”, cioè che è stata “risolta” l’opposizione della compagnia petrolifera nigeriana, che chiedeva un contratto in cui anche lo Stato potesse avere una parte del ricavo di Eni e Shell. La corruzione ha ottenuto i suoi effetti e subito – spiega l’avvocato Lucia – le due compagnie sono state avvertite.

Le trattative finiscono infatti con la piena accettazione delle condizioni di Eni e Shell, salvo una clausola che permette formalmente alla Nnpc di rientrare in partita nel futuro, ma a fronte di un pagamento che di fatto è impossibile. “Perché mai”, si chiede il legale, “forzare tutte le procedure aziendali, accettare un forte rischio reputazionale, sedersi al tavolo con un ex ministro del petrolio pregiudicato per riciclaggio, che ha ottenuto la licenza Opl 245 in situazioni quantomeno dubbie? Perché mai trattare con una società come Malabu per la quale non si riesce neppure a completare la due diligence prevista dalla compliance interna?”.

Si risponde che “prezzo basso e clausole vantaggiose configurano un grande affare per Eni e Shell, ma a scapito delle entrate della Repubblica federale di Nigeria”. Il valore del giacimento è molto più alto degli 1,092 miliardi pagati: il consulente tecnico (Rogers) della parte civile lo stima attorno ai 3,5 miliardi, come anche un report interno di Shell sequestrato dai pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Conclude il legale dello Stato nigeriano: “Il prezzo così basso, in rapporto al valore della licenza, ha indubbiamente un significato indiziario assai importante: costituisce per Eni e Shell, in sostanza, il movente del reato”.

Lucio Lucia sottolinea anche il comportamento di uno degli imputati nel processo milanese, Ednan Agaev, che dopo aver fatto il diplomatico per la Russia di Putin era diventato uno dei consulenti di Shell per l’affare nigeriano. Durante le indagini dice di aver saputo da Etete di richieste di tangenti da parte del governo; in dibattimento ritratta, sostenendo di essere stato condizionato dall’Fbi prima e poi dal pm De Pasquale “molto aggressivo” nel corso del suo interrogatorio.

I manager di Eni e Shell erano consapevoli di pagare i pubblici ufficiali”, sostiene l’avvocato, perché le email sequestrate durante l’indagine “dimostrano con massima chiarezza che le due compagnie conoscevano bene i rapporti fra Etete e i pubblici ufficiali nigeriani, il presidente Goodluck, la ministra del petrolio Alison Diezani-Madueke e l’Ag Adoke Bello: le email sono esplicite. Le due compagnie sono pienamente consapevoli delle clausole favorevolissime e pagano in sostanza Etete sapendo che questi pagherà i pubblici ufficiali. Non è sufficiente pagare su un conto escrow formalmente intestato al governo, se si sa che è una partita di giro e che i soldi sarebbero passati prima a Etete e poi ai pubblici ufficiali corrotti”.

La Repubblica federale di Nigeria ha subito, secondo Lucio Lucia, un grave danno. Quello patrimoniale va dai 4,5 ai 5,9 miliardi di dollari, le mancate entrate dello Stato che sarebbero arrivate se invece dell’accordo del 2011 fosse stato firmato un normale contratto Psc. “Al danno patrimoniale dovrà essere aggiunto il grave danno di immagine e il danno morale, che dovranno essere quantificati in un separato giudizio civile. Il reato ha alterato la corretta gestione degli affari pubblici in Nigeria, incidendo gravemente sullo sviluppo economico. Ha alterato le condizioni economiche di mercato in materia di concorrenza, che è del resto l’interesse protetto dalla norma che punisce la corruzione internazionale”. Formulata una richiesta di provvisionale: quei 1,092 miliardi di dollari andati ai politici nigeriani. E la confisca, già chiesta dal pm, di quello che per l’accusa è il “prezzo della corruzione”: cioè 1,092 miliardi di dollari.

Eni ha risposto con un comunicato in cui ribadisce, con “sconcerto”, che “il pagamento della licenza è stato eseguito direttamente al governo nigeriano. Eni non era a conoscenza, e non era tenuta a esserlo, di eventuali flussi di denaro successivi al proprio pagamento”.

“Per quanto riguarda la congruità del prezzo rispetto al valore della licenza, che la parte civile mette in discussione adducendola come indizio di reato, Eni sottolinea come l’offerta economica sia in realtà congrua e ragionevole, se si considera il valore del campo esplorativo 245 e degli investimenti necessari per poterlo mettere in produzione”.

Il Fatto quotidiano, 11 settembre 2020 (versione ampliata)
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