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Tangenti petrolifere in Nigeria, i vertici Eni sapevano

Tangenti petrolifere in Nigeria, i vertici Eni sapevano

È una sentenza che pesa su Eni come un macigno, quella della giudice milanese Giusy Barbara che motiva le condanne per corruzione internazionale inflitte il 20 settembre a due mediatori della compravendita dell’enorme giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria. È il risultato finale di un processo con rito abbreviato che riguarda soltanto due persone, l’italiano Gianluca Di Nardo e il nigeriano Obi Emeka, condannati tre mesi fa a 4 anni di reclusione. Ma quelle motivazioni potranno pesare sul processo in corso agli altri 13 imputati, tra cui Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, e il suo predecessore Paolo Scaroni.

Niente di automatico: la sentenza della gup Barbara non è un verdetto definitivo e poi, non essendo una “sentenza dibattimentale”, non ha efficacia su un processo con rito ordinario. Però le argomentazioni contenute nella sentenza non promettono niente di buono per Eni e i suoi vertici.

Le oltre 300 pagine del verdetto ricapitolano tutta la complessa vicenda internazionale che nel 2011 porta Eni e Shell a pagare al governo nigeriano 1 miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere il campo d’esplorazione petrolifero Opl 245. Non un centesimo resta però nelle casse pubbliche del Paese africano. “Il governo “si limita a fare da ‘scudo’ e da ‘garante’ in un’operazione negoziale che nella sostanza serve solo a dissimulare la vendita della licenza sul blocco petrolifero da Etete a Eni e Shell”.

Infatti l’ex ministro del petrolio nigeriano, Dan Etete, si era preso il controllo di Opl 245 attraverso la società Malabu e tutti i soldi sono stati girati e dispersi in una girandola di conti in giro per il mondo, finendo nelle tasche private di governanti della Nigeria e di mediatori italiani e internazionali. La vicenda “appare di inaudita gravità” non solo per “l’entità della somma di denaro” usata per corrompere i pubblici ufficiali del Paese africano, ma anche perché lo Stato nigeriano “è stato depredato di uno dei suoi beni di maggior valore”. E per l’Italia è “ancora più grave, per il coinvolgimento della principale società del nostro Paese, di cui lo stesso Stato italiano è il maggior azionista”.

La sentenza che condanna i due mediatori ha parole nette anche per il vertice di Eni: “Era pienamente a conoscenza del fatto che una parte degli 1,092 miliardi di dollari pagati sarebbe stata utilizzata per remunerare pubblici ufficiali nigeriani che avevano avuto un ruolo in questa vicenda e che come squali famelici nuotavano attorno alla preda”. I vertici sono Descalzi, allora numero due di Eni, e Scaroni, oggi vicepresidente di Rothschild e presidente del Milan. Scaroni avrebbe delegato la contrattazione con i nigeriani al suo amico Luigi Bisignani, ex P2, condannato per la tangente Enimont, indagato per la P4. Questi avrebbe teleguidato Descalzi, “prono di fronte alle pretese di Bisignani”.

La sentenza riferisce di 50 milioni di dollari “in contanti” consegnati “presso la casa di Roberto Casula”, all’epoca capo della Divisione Esplorazioni di Eni, ad Abuja, in Nigeria. Quasi 1 milione di euro, poi, l’8 maggio 2012 sarebbe stato versato all’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna. Ora sarà però il Tribunale di Milano a decidere la sorte degli imputati ancora sotto processo. Eni ribadisce di aver concluso l’operazione direttamente con il governo nigeriano e si dice sicura “di poter provare la totale estraneità della società a qualsiasi ipotesi corruttiva”.

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Il Fatto quotidiano, 18 dicembre 2018
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