Perché mai al partito di Matteo Salvini è stato chiesto di pagare 49 milioni di euro allo Stato? È il frutto di una “sentenza politica” scritta per “uccidere la Lega”, protestano i suoi dirigenti. Nasce da una inchiesta su un passato ormai riposto in soffitta, quello del Carroccio verde di Umberto Bossi, oggi sostituito dalla nuova Lega giallo-blu di Matteo Salvini, incalzano i suoi uomini. È proprio così?
In principio fu Alfredo Robledo, il magistrato della Procura di Milano (poi trasferito a Torino dopo un duro conflitto con il procuratore Edmondo Bruti Liberati) che nel 2012 avviò un’inchiesta sui conti della Lega, allora nelle mani di Umberto Bossi e del tesoriere Francesco Belsito. L’indagine si divise in due tronconi, uno che proseguì a Milano (dove ora dovrebbe iniziare il processo d’appello), l’altro che fu trasferito a Genova (appello in corso, sentenza probabilmente a novembre).
I fatti: alla Lega è contestato di aver chiesto, nel periodo 2008-2010, denaro pubblico, come rimborsi dalla Camera e dal Senato, con rendicontazioni irregolari. Insomma con carte truccate, che documentavano attività diverse da quelle realmente svolte. I giudici stabiliscono che i fondi incassati con documentazione irregolare – e dunque da restituire – siano in totale 49 milioni. Una parte (oltre 500 mila euro) fu spesa per finanziare la “Family”, come era scritto su una cartellina sequestrata a Belsito dove erano elencate le spese per la famiglia Bossi: la ristrutturazione della casa del senatur a Gemonio, le multe del figlio Renzo detto “il Trota”, la sua “laurea” comprata in Albania, l’operazione di rinoplastica dell’altro figlio, Sirio…
Una parte più consistente fu invece impiegata da Belsito in investimenti avventurosi: in un’operazione finanziaria in Tanzania, in un fondo a Cipro, in acquisti di diamanti, in un conto in corone norvegesi… I soldi recuperati da questi investimenti furono poi comunque impiegati per finanziare le attività politiche della Lega. Non senza irregolarità: “Si rimane sbalorditi”, scrivono gli avvocati che assistono Camera e Senato contro la Lega, “nel sapere che”, in tempi di austerità, “venivano distribuiti migliaia di euro in nero a dipendenti della Lega tramite buste Buffetti”.
A Milano è arrivata una sentenza di primo grado che condanna Belsito, Umberto e Renzo Bossi per appropriazione indebita, cioè per aver utilizzato soldi pubblici per fini personali e non di partito (cure mediche per il fondatore malato, la ristrutturazione di casa, la “laurea” e le multe dei figli, eccetera). A Genova, invece, la condanna in primo grado (a Bossi, Belsito e tre revisori) riguarda i soldi pubblici spesi per il partito, ma ricevuti sulla base di rendiconti falsi. Belsito è stato condannato anche per appropriazione indebita, ma il centro del processo è la truffa nei confronti dello Stato.
Perché attraverso “artifici e raggiri”, si legge nella sentenza, sono state “riportate nel rendiconto false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute, in assenza di documenti giustificativi di spesa”. Salvini sostiene che si tratta di responsabilità non sue, ma della gestione precedente, di Bossi e Belsito. Vero. Ma il partito è lo stesso e secondo i magistrati c’è continuità tra la cassa gestita dal tesoriere di Bossi e quella di Salvini. Anche perché i soldi chiesti con rendiconti falsi tra il 2008 e il 2010 sono stati effettivamente pagati dal Parlamento fino al 2013 e incassati dalla Lega di Bossi (35 milioni fino al 2012), da quella di Roberto Maroni (12,9 milioni tra il 2012 e il 2013) e anche da quella di Salvini (800 mila euro nel 2013).
Il nuovo tesoriere, Giulio Centemero, dice: “Sono soldi che abbiamo speso per l’attività politica del partito”. Vero. Ma i giudici ne pretendono la restituzione perché ottenuti in maniera illegittima, con rendiconti falsi. “Sono soldi che non ci sono più”, continua Centemero. Vero. Ma è stato avviato un “sequestro per equivalente”: sul conto corrente della Lega, la Guardia di finanza ha trovato soltanto 1,65 milioni; il resto dovrà essere sequestrato in futuro “ovunque e presso chiunque custodito”.
A questo punto si apre un nuovo problema: i magistrati sospettano che, per evitare il sequestro, i soldi della Lega siano stati dirottati altrove, in casse non immediatamente riconducibili al partito. Per questo la Procura di Genova ha avviato un’inchiesta per individuare eventuali flussi finanziari riconducibili alla Lega. E si coordina con la Procura di Roma che indaga sui finanziamenti del costruttore Luca Parnasi all’associazione PiùVoci, di area leghista.
Nelle scorse settimane è stata posta la domanda: perché i giudici non hanno sequestrato, in passato, i soldi della Margherita, dopo che il tesoriere Luigi Lusi era stato coinvolto in vicende simili a quelle di Belsito? La risposta è che la Margherita aveva chiesto i danni a Lusi, indicandolo come colui che si era intascato i soldi del partito, sottraendoli alle sue casse ufficiali. La Lega i soldi illegittimamente incassati li ha spesi e non ha chiesto i danni a Bossi e Belsito. Così ora si apre la caccia al tesoro.