GIUSTIZIA

La rivincita di Robledo, il pm che indagava troppo (su Expo)

La rivincita di Robledo, il pm che indagava troppo (su Expo)

Un amico gli ha scritto via whatsapp: “Passo dopo passo, ti faranno santo”. Il messaggio era indirizzato al magistrato Alfredo Robledo, subito dopo l’archiviazione del procedimento a suo carico da parte del giudice di Brescia. Già la Cassazione aveva cancellato la decisione del Consiglio superiore della magistratura di fargli cambiare funzione e impedirgli di fare il pubblico ministero. Due vittorie significative in una storia iniziata nel 2014, con un conflitto che gli è costato: un procedimento disciplinare del Csm, un processo penale aperto dalla Procura di Brescia, il trasferimento d’ufficio da Milano a Torino e una serie di accuse che si sono via via sgretolate. Oggi, tre anni dopo le prime scintille, questa storia intricata come lo “gnommero” di Carlo Emilio Gadda la possiamo dipanare e ricostruire alla luce degli esiti finali, fissando bene il punto di partenza (le indagini a Milano su Expo) e osservando il punto d’arrivo (la gerarchizzazione delle Procure in discussione oggi al Csm).

A ritroso, dobbiamo partire dalla sentenza “in nome del popolo italiano” che il 9 ottobre 2017 proscioglie Robledo “perché il fatto non sussiste”: il giudice dell’udienza preliminare di Brescia tira un tratto di penna sull’accusa che, partita da una lettera anonima arrivata alla Procura di Milano, per tre anni è aleggiata sul magistrato. E cioè che avesse commesso il reato di abuso d’ufficio: versando gli oltre 100 milioni che aveva sequestrato ad alcune banche, nel corso di un’inchiesta sui derivati, non al Fug (il Fondo unico per la giustizia di Equitalia), ma alla Bcc (la Banca di credito cooperativo) di Carate Brianza; e pagando 800 mila euro a due consulenti nominati custodi giudiziari delle somme sequestrate. I messaggi diffusi da questa inchiesta erano: Robledo ha favorito un direttore di banca, suo “conoscente di lunga data”, guarda caso nel paese dove abitava, proprio nell’istituto dove lavorava suo figlio e che dava incarichi alla sua ex moglie notaio; e ha remunerato con ricche parcelle due professionisti amici suoi… Chissà dunque che cosa avrà avuto in cambio.

Ci sono voluti tre anni, ma ora, grazie al gup di Brescia che ha assolto, sappiamo: che il Fug non è una banca, ma un salvadanaio virtuale, un elenco a cui le banche o gli operatori finanziari a cui sono affidati materialmente i soldi sequestrati (e non il magistrato che ha chiesto il sequestro) devono iscrivere i denari oggetto di sequestro; che Robledo non aveva rapporti di frequentazione né con il direttore di banca né con i due consulenti; che suo figlio non ha mai lavorato in banca ma fa l’allenatore di pallacanestro; che la sua ex moglie ha avuto 0 (zero) contratti dalla Bcc di Carate Brianza; che Robledo abita a Milano, e non a Carate, fin dal 1995 (e non dal 2008, data di un certificato di residenza balenato in questa storia). Insomma: l’obiettivo era distruggere l’immagine di Robledo, sul quale sono state compiute anche indagini patrimoniali per scoprire se avesse tesoretti nascosti. Ma infine, c’è un giudice a Brescia…

Questa storia chiusa oggi con un “il fatto non sussiste” si capisce soltanto facendo un balzo indietro di tre anni. Il 12 marzo 2014 Robledo, procuratore aggiunto a Milano, a capo del pool che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione, decide di rendere espliciti i contrasti con il suo capo, il procuratore Edmondo Bruti Liberati. Manda al Csm un esposto in cui sostiene che Bruti viola sistematicamente i criteri di organizzazione dell’ufficio da lui stesso stabiliti. Il capo di una Procura non è un monarca assoluto, deve seguire le regole che emana, o almeno motivare decisioni difformi.

Invece, sostiene Robledo, il procuratore ha contraddetto se stesso nella gestione di alcune indagini molto delicate: Sea (non assegnandogli un fascicolo su una presunta turbativa d’asta, poi dimenticato per mesi in un cassetto); San Raffaele (non assegnandogli l’indagine sulle corruzioni nell’ospedale milanese); Ruby (assegnando l’inchiesta sulle “cene eleganti” di Silvio Berlusconi, al di fuori dei criteri organizzativi stabiliti, a Ilda Boccassini che dirige l’antimafia); e infine il caso dei casi: Expo.

Su Expo lo scontro precipita. L’esposizione universale dovrà aprire i cancelli il 1 ottobre 2015, i lavori sono in grandissimo ritardo, attorno ai suoi ricchi appalti, fatti in fretta e furia, s’aggirano vecchi volponi e nuovi criminali. Ma Bruti, in stretto contatto con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, decide di far valere quella che poi il presidente del Consiglio Matteo Renzi definirà, a cose finite, “sensibilità istituzionale”. Cautela. Attenzione. Le indagini sì, ma senza disturbare troppo il manovratore, perché “non si può far fare una figuraccia all’Italia”. Robledo, con i sostituti procuratori del suo dipartimento, è considerato da Bruti privo di “sensibilità istituzionale”.

Lo ha già dimostrato indagando, contro la volontà del procuratore (“Tu lo iscrivi quando lo dico io”), il presidente della Provincia di Milano accusato di aver raccolto firme false per la presentazione delle liste elettorali. Così l’indagine su Expo che scopre la “cupola degli appalti”, anche se non c’entra nulla con la mafia, viene lasciata a Boccassini. Così Bruti proibisce a Robledo di andare a interrogare un arrestato, Antonio Rognoni, che sugli appalti Expo la sapeva lunga. Così nel giugno 2014 istituisce una fantomatica “Area omogenea Expo”, da lui personalmente diretta, che si deve occupare di ogni indagine sull’esposizione. Così, nell’ottobre 2014, caccia infine Robledo al dipartimento esecuzione penale, togliendogli i reati sulla pubblica amministrazione.

Intanto, a Milano, guanto di velluto per Giuseppe Sala, il commissario di Expo. Viene salvato da un’indagine per aver dato senza gara a Eataly di Oscar Farinetti il succulento appalto dei ristoranti Expo. Archiviate le accuse di falso per non aver dichiarato case in Svizzera e in Liguria e società in Italia e Romania. Per riaprire le indagini su Expo e su Sala dovrà intervenire, nel 2016, fuori tempo massimo, la Procura generale.

A Roma, invece, pugno di ferro per Robledo: il Csm lo massacra, su espressa indicazione di Napolitano che detta la linea in una lettera “non ostensibile” mandata al vicepresidente Michele Vietti. Dopo vari contorcimenti, la sezione disciplinare del Csm trova finalmente il chiodo a cui impiccare il magistrato: ha chiesto un documento del Parlamento europeo (peraltro non riservato) a un avvocato della Lega, Domenico Aiello, che intercettato con i suoi capi partito si rivende come riservate notizie, avute da Robledo, che invece tutti sapevano (e cioè che le indagini sulle spese pazze dei consiglieri regionali lombardi avrebbero raggiunto, com’è giusto, tutti i partiti).

Basta a far scattare la punizione: cambi sede e funzione! Vada a fare il giudice a Torino. Poi la Cassazione riforma la decisione e lo lascia a Torino come procuratore aggiunto. Ma intanto la storia ha fatto il suo corso, per provare a indagare (troppo tardi) su Expo e su Sala si è dovuta mettere in mezzo la Procura generale di Milano. E il Csm ha in discussione una circolare che potrebbe assegnare ogni potere gerarchico ai procuratori: così, in futuro, i Robledo saranno davvero impossibili.

Il Fatto quotidiano, 19 ottobre 2017
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