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Ubi, quel miliardo buttato per aiutare l’Intesa di Bazoli

Ubi, quel miliardo buttato per aiutare l’Intesa di Bazoli

Operazioni finanziarie fatte da Ubi banca non nell’interesse di Ubi, ma di Intesa. Con la figura di Giovanni Bazoli che aleggia su entrambi gli istituti di credito. E con Ubi che perde 1 miliardo di euro vendendo troppo tardi un pacchetto di azioni Intesa. È uno degli spunti investigativi segnalati nell’ultima annotazione di polizia giudiziaria consegnata dal nucleo valutario della Guardia di finanza al pm di Bergamo Fabio Pelosi.

La Procura bergamasca ho concluso il 17 novembre 2016 le indagini su Ubi e sul doppio ruolo di Bazoli. Nei prossimi giorni potrebbero arrivare le richieste di rinvio a giudizio per Bazoli e altre 38 persone. Ma intanto l’ultima annotazione della Guardia di finanza, datata 24 gennaio 2017, riassume i filoni dell’indagine ed elenca una decina di spunti investigativi che potrebbero essere ancora approfonditi. Tra questi, c’è l’operazione di compravendita di azioni Intesa Sanpaolo.

Nel 2007, quando Ubi nasce dal matrimonio tra la bresciana Blp e la bergamasca Bpu, i bresciani portano in dote anche in pacchetto di azioni Intesa del valore di circa 2 miliardi di euro. Questo viene conferito alla nuova banca che nasce. “Tali azioni”, si legge nell’annotazione, “secondo quanto riportato in bilancio, non rappresentavano un investimento strategico, ma una partecipazione destinata alla vendita”. Non dovevano dunque restare in cassaforte, ma servire per pagare il viaggio di nozze o per metter su la nuova casa comune dopo il matrimonio: erano insomma destinate alla vendita per fare cassa.

Invece la vendita non c’è stata. Il pacchetto riposa tranquillo nella cassaforte di Ubi per cinque anni. Viene venduto soltanto tra il 2012 e il 2013, “generando una minusvalenza di circa 1 miliardo di euro”, scrivono le Fiamme gialle. Vendere subito avrebbe fatto bene a Ubi, portando nelle sue casse, appunto, un paio di miliardi. Ma non avrebbe fatto bene a Intesa, che avrebbe avuto un abbassamento del valore del titolo. Ubi sceglie di stare ferma, perdendo metà del valore del suo pacchetto.

“Non si può escludere”, annota la Guardia di finanza, “che la gestione antieconomica del pacchetto di azioni fosse collegata al duplice ruolo ricoperto da Giovanni Bazoli”. Presidente di Intesa, ma fino al 2012 anche membro del consiglio di sorveglianza di Ubi e dopo il 2012 grande burattinaio di Ubi, attraverso i patti segreti e la persistente influenza sulla banca bresciano-bergamasca che l’indagine della Procura di Bergamo ritiene di avere provato.

L’annotazione delle Fiamme gialle rileva anche che “Ubi banca ha aderito all’aumento di capitale di Intesa Sanpaolo in relazione alla partecipazione detenuta, destinando a tale scopo le risorse finanziarie raccolte dalla propria operazione di aumento di capitale, originariamente destinata ad altri scopi”. Nel maggio 2011, infatti, Intesa avvia un aumento di capitale da 5 miliardi di euro. Ubi partecipa pro quota, avendo in cassaforte l’1,2 per cento di Intesa. Intanto, però, sta raccogliendo i soldi per realizzare anche il proprio aumento di capitale, da 1 miliardo, avviato nel giugno 2011, un mese dopo quello di Intesa. Il risultato, secondo l’annotazione della Guardia di finanza, è che per partecipare all’aumento di capitale di Intesa, Ubi impiega soldi raccolti per “la propria operazione di aumento di capitale”.

A raccontare la vicenda del pacchetto Intesa è Giuseppe Masnaga, fino al marzo 2013 direttore generale della Banca Popolare di Bergamo, controllata al 100 per cento da Ubi. È sentito dal pm Fabio Pelosi il 20 maggio 2014: “Sono a conoscenza del fatto che Banca Lombarda aveva un pacchetto di azioni Intesa Sanpaolo del valore complessivo pari a circa 2 miliardi di euro che confluì nel patrimonio di Ubi a seguito della fusione”, racconta Masnaga.

“Il possesso di tale pacchetto provocò reazioni negative di qualche socio perché rappresentava un rischio pari a oltre il 10 per cento del patrimonio di Ubi su un soggetto concorrente. I vertici di Ubi dichiararono in bilancio che tale partecipazione non rappresentava un investimento strategico, ma era una partecipazione destinata alla vendita. La vendita però non avvenne né immediatamente dopo la fusione (quando il valore delle azioni era superiore al valore di carico), né negli anni successivi: tale partecipazione fu venduta tra il 2012 e il 2013, generando una minusvalenza per circa 800 milioni-1 miliardo di euro”.

Non basta. “Evidenzio che Ubi banca partecipò altresì all’aumento di capitale di Intesa Sanpaolo”, prosegue Masnaga, “proprio in virtù del possesso di tale partecipazione, accollandosi il relativo costo. Aggiungo che nello stesso periodo anche Ubi banca aveva deliberato essa stessa un aumento di capitale. Le risorse rivenienti da tale aumento di capitale furono impiegate in gran parte per la sottoscrizione dell’aumento di capitale di Intesa Sanpaolo”.

Insomma: l’asserita raccolta di risorse per far crescere l’economia è invece impiegata nell’operazione finanziaria di rafforzamento della banca di Bazoli. Quando poi vendono il pacchetto, l’anno successivo, perdono circa 1 miliardo: per sostenere il padre nobile di Intesa, bruciano tutto l’aumento di capitale Ubi.

 

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Il Fatto quotidiano, 26 maggio 2017
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